Al governo o all’opposizione in Europa è la sinistra a pagare il prezzo della crisi

La grande recessione ci sta facendo vivere un momento davvero strano: mentre sotto Barack Obama gli Stati Uniti, patria dell'individualismo e del libero mercato, stanno virando a sinistra - forse più a sinistra di quanto siano mai stati nel dopoguerra - l'Europa, pur affetta dallo stesso male, sta compiendo il percorso inverso. L'aspetto più straordinario di questa evoluzione della Ue è che essa avviene - quasi senza eccezioni - sia nei Paesi dove la destra è al governo, sia in quelli dove è all'opposizione. In Germania, dove la «Grosse Koalition» che governa dal 2005 sta per dividersi, la cancelliera Merkel, che quattro anni fa aveva sopravanzato la Spd solo di un soffio, conta oggi su un vantaggio di 36 a 25 sul candidato socialista e, dopo avere vinto le elezioni in programma per l'autunno, formerà quasi sicuramente un governo con i liberali, che sono ancora più a destra di lei. In Francia Sarkozy è contestato nelle piazze, ma anche per le carenze degli avversari vincerà non solo le europee, ma se si votasse anche per la presidenza, tornerebbe all'Eliseo senza difficoltà. In Polonia, il grande Paese europeo che sta soffrendo meno per la crisi, il premier liberale Tusk sta cavalcando un'ondata di grande popolarità. Quanto al nostro Paese, la situazione la conosciamo, ma l'altro ieri è stata certificata ufficialmente anche dall'Economist, il giornale che aveva proclamato in copertina Berlusconi «inadatto a governare» e che un anno fa aveva raccomandato di votare per Veltroni. Il titolo della sua ultima inchiesta è «La Berlusconizzazione dell'Italia», il sommario «Il presidente del consiglio italiano sembra più saldo in sella che mai», la frase chiave «per un Paese in recessione, la sua popolarità è incredibilmente alta».
Mentre le destre al governo sembrano destreggiarsi a meraviglia, quelle all'opposizione si preparano a prendere il potere. Come si legge nell'articolo sopra, in Gran Bretagna il predominio del partito laburista, iniziato 12 anni fa con la vittoria di Tony Blair su John Major sta volgendo ingloriosamente al termine. Purtroppo per gli inglesi, Gordon Brown lascerà l'anno venturo in eredità a David Cameron, il giovane leader dei conservatori, una situazione talmente catastrofica, che c'è perfino da chiedersi se gli convenga assumere la responsabilità di governo. Altrettanto può dirsi per la Spagna, dove il Partito popolare di Mariano Rajoy ha appena superato nei sondaggi, sia pure di un modesto 1,2%, il Psoe di Zapatero. Con la crisi, e lo scoppio della bolla edilizia, la Spagna è passata nel giro di pochi mesi da star a grande malata della Ue, con una disoccupazione che potrebbe superare a fine anno il 20%; e, per quanto non nutrano molta fiducia neppure nell'opposizione, gli spagnoli sembrano risoluti a cambiare timoniere.

La spiegazione di questo singolare scambio di ruoli è abbastanza semplice: che gli americani, non avendo mai avuto veri governi di sinistra ed essendo profondamente delusi dai repubblicani sono disponibili a sperimentarne le ricette (anche se cominciano ad affiorare molti dubbi sulla strada imboccata da Obama); gli europei invece, conoscendo bene le caratteristiche di entrambi gli schieramenti, sono persuasi che in un’emergenza in cui - per forza di cose - il pubblico è chiamato a svolgere un ruolo di primo piano, è più saggio affidarsi a una destra che continua ad avere il mercato come stella polare che a una sinistra che potrebbe approfittare dell'occasione per rendere la svolta statalista permanente.

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