Governo salvo sulla sfiducia ma non ha più la maggioranza

RomaLa sfiducia è bocciata; il sottosegretario Caliendo è salvo e ringrazia, promettendo che dimenticherà «le cattiverie dei nemici»; la maggioranza perde un bel pezzo e scende sotto quota 316: finisce a 299 no contro 229 sì, con in mezzo i 75 astenuti finian-casinian-rutelliani. All’altolà politico alle speranze dell’opposizione ci pensa Umberto Bossi: terzi poli e governi di transizione? «Se cade questo governo noi andiamo a votare con Berlusconi. E la Lega vince, anzi stravince», avverte. In ogni caso, il voto sia pur risicato di ieri «è il segnale che resistiamo».
Si resiste: ad un attimo dal fatidico voto, quando il capogruppo Pdl Cicchitto ha appena finito il suo acceso intervento, entra in aula Silvio Berlusconi e l’emiciclo di Montecitorio si trasforma in uno stadio da mondiali. «Silvio! Silvio!», gridano agitando le braccia plaudenti le deputate Pdl più ardenti. I leghisti a quel punto hanno un soprassalto di patriottismo e invocano «Bossi! Bossi!»; i due osannati si scambiano uno sguardo complice, il Pd fa «buuu» in mancanza di leader da invocare, il «terzo polo» tace, Fini guarda dall’alto senza muovere muscolo mentre i decibel salgono.
Arrivato Berlusconi, i banchi del governo sono al completo. In prima fila il ministro (Ronchi) e il viceministro (Urso), finiani, che di lì a poco voteranno «no» come i colleghi di esecutivo. Bossi fa il galante con Stefania Prestigiacomo e si distoglie dalla bionda ministra solo per fare un gesto tipo «ma vai a quel paese» al capogruppo Dario Franceschini, che dal microfono lo accusa: «Ora Roma ladrona la difendete». Va tutto in diretta tv, come richiesto dalle opposizioni. Tra i primi a parlare l’onorevole Iannaccone, rappresentante di Noisud, che annuncia il «no» del suo gruppo (3) alla mozione, che è «l’ennesimo tentativo di un’opposizione allo sbando, alla ricerca di improponibili alleanze per far cadere il governo». L’ovazione da centrodestra per Iannaccone è fragorosa, lui stesso si guarda attorno stupito dell’entusiasmo. Parla Tonino Di Pietro ma in aula c’è il brusio dei momenti di noia, quel che dirà l’ex Pm è prevedibile: la P2, la P3, il piano di Rinascita democratica in cui - come nelle quartine di Nostradamus - «c’era già tutto, esattamente quel che si è verificato», compresi si immagina il caso Caliendo e il terremoto dell’Aquila. Ma in realtà, finito il consueto repertorio anti-Cavaliere, Di Pietro se la prende con maggior verve con Fini: «Sulla questione morale non ci si può astenere, solo un pavido che non vuole andare alle urne per non perdere il posto farebbe il “palo” alla maggioranza». Ecco qui, il presidente della Camera è servito: fa il «palo». Poi è il turno di Benedetto Della Vedova, vicepresidente dei deputati finiani: «Avremmo voluto restare nel Pdl, ma la dialettica non è tollerata esordisce». Se la prende - pacatamente - sia col «garantismo peloso» che con il «giustizialismo feroce», assicura che «i numeri della maggioranza non cambiano» ma che sui «temi istituzionali» ci saranno mani libere, e annuncia l’astensione. Fini gli manda un bigliettino di congratulazioni per il difficile esordio. Tocca a Casini che chiede al Cavaliere di affidarsi «alla politica» e non alla «aritmetica parlamentare». Franceschini accusa il «sistema malato» della corruzione, e lancia la sfida: Berlusconi vuole elezioni anticipate? Si dimetta. Ma «un attimo dopo lui esce di scena e la parola passa al capo dello Stato», e «noi faremo ogni cosa per tornare a votare sì, ma con una nuova legge elettorale». Pur di non votare, il Pd è pronto a governi «tecnici» di qualunque ordine e grado. Peccato che, ragionano nei capannelli anche dell’opposizione, un governo tecnico «potrebbe anche avere una risicata maggioranza alla Camera, ma mai al Senato».

A Palazzo Madama i numeri Pdl sono blindati, e da lì arrivano segnali di spostamenti inversi, come quello della Udc (ex Pd) Dorina Bianchi: «Il voto di oggi non andava fatto per schieramenti politici: pensare di fare la conta su una questione di questo genere è sbagliato. Ricordiamoci di Mannino e Formica, per anni considerati colpevoli e poi scagionati. Sui principi di garantismo e legalità non dovrebbero esistere tatticismi. La politica non può essere disarcionata da atti giudiziari».

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