Roma - Un «pressing forsennato», raccontano, un «assedio durissimo». Assedianti Romano Prodi e Massimo D’Alema, assediati i tre ministri «afghani»: Paolo Ferrero di Rifondazione, Alfonso Pecoraro Scanio dei Verdi e Alessandro Bianchi del Pdci. Quelli che sono entrati ieri in Consiglio dei ministri annunciando che non avrebbero votato il decreto che rinnova la missione italiana a Kabul.
«Non potete non votare, dovete dare almeno un sì tecnico», implorava il premier. «Poi mettete agli atti il vostro dissenso politico e lo spiegate, ma qui dovete votare». Niente da fare, i tre han resistito fino all’ultimo e al momento del voto sono usciti dalla sala del Consiglio. «Non ci sono elementi che vanno verso un cambio di linea», spiega Ferrero. «Ma nella maggioranza non c'è comunque tensione nè dissenso in Parlamento», cerca di rassicurare Prodi che annuncia: «La missione Enduring Freedom è chiusa». La ragione del no è semplice, spiegano dagli stati maggiori di Verdi e Prc: «D’Alema e Prodi si devono mettere in testa che anche noi vogliamo che il governo non cada su Kabul. Ma per far votare il decreto ai nostri parlamentari, dobbiamo mostrare ora di alzare il tiro: il no in Consiglio dei ministri è funzionale al sì in Parlamento». La Velina rossa di Pasquale Laurito, voce dalemiana, se la prendeva duramente con Prodi, invitandolo a richiamare all’ordine la sinistra dell’Unione: «Se continua con i patteggiamenti la situazione finisce fuori controllo». Attorno al tavolo di Palazzo Chigi ci si accapigliava forsennatamente da ore su Authority e liberalizzazioni, con i ministri del futuro Partito democratico (Ds e Dl) su opposte barricate, e intanto il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri si occupavano di incalzare i dissidenti pacifisti: «Non possiamo uscire di qui con tre ministri che si dissociano su un tema fondamentale di politica estera, vi rendete conto di che immagine daremmo?».
Il Consiglio dei ministri è iniziato alle 16.30, con un’ora di ritardo. Spiegazione ufficiale: D’Alema era in arrivo da Parigi (dove era andato a partecipare alla Conferenza internazionale sugli aiuti al Libano) e non si poteva iniziare senza di lui; ma in realtà si stava disperatamente cercando un accordo sulle liberalizzazioni per arrivare alla riunione con un testo condiviso almeno un po’. E intanto il pressing sui tre continuava. Prodi metteva sul tavolo cifre sempre più consistenti per il capitolo cooperazione civile in Afghanistan, su cui Rifondazione chiede un impegno maggiore: ieri mattina si parlava di 30 milioni, a sera erano diventati 60. D’Alema rincarava la dose: «Oggi a Parigi ho annunciato che il governo italiano stanzierà 120 milioni di euro per la ricostruzione del Libano? È un segnale chiaro che questo governo sta spostando l’attenzione dall’opzione militare a quella centrata sulla cooperazione civile», e sottolineava che anche il presidente francese Chirac ieri si è sentito in dovere di lodare D’Alema per lo «sforzo considerevole» e la «generosità militante» dell’Italia.
Dalle le porte chiuse del Consiglio trapelavano voci: intorno alle 19, in casa dei Verdi si tremava: «I tre stanno resistendo, ma la pressione è fortissima». Alle 21 Bianchi veniva dato sul punto di cedere: «È possibile che lui alla fine voti sì, come farà Mussi», spiegavano da un ministero di prima linea sull’Afghanistan. Bianchi in fondo è un ministro «indipendente», non un militante del Pdci. «Ma se alla fine vota fa fare una figura ridicola a Diliberto», notavano increduli dal Prc.
Alle 22, dopo il travagliatissimo parto delle liberalizzazioni, ha preso la parola D’Alema.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.