La carta della "maggioranza Ignazio" per l'ok in Aula senza il referendum

Serve il «sì» di due terzi del Parlamento per andare dritti alla meta Si punta sui renziani e sul metodo che ha fatto eleggere La Russa

La carta della "maggioranza Ignazio" per l'ok in Aula senza il referendum
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La Russa, salvaci tu! Il governo Meloni punta sulla «maggioranza Ignazio» per superare l’ostacolo del referendum (costò caro a Matteo Renzi) che sorge sul cammino verso l’approvazione della riforma costituzionale sul premierato. Lo scenario di una consultazione popolare, cavalcata dalle opposizioni, è un rischio concreto. Tutto è legato ai numeri. Per scongiurare il referendum è necessario che la riforma ottenga nella seconda votazione, sia alla Camera che al Senato, una maggioranza dei 2/3. L’asticella è fissata alla soglia di 266 voti a Montecitorio mentre a Palazzo Madama si parte da 136 voti. Sulla carta il centrodestra parte da 235 voti alla Camera e 115 al Senato.
Ecco allora che le speranze sono tutte affidate alla «maggioranza Ignazio». Bisogna fare un passo indietro, al mese di ottobre del 2022, quando si è insediato il nuovo Parlamento con l’elezione dei rispettivi vertici. L’attuale presidente del Senato La Russa fu eletto al primo colpo con 116 voti. C’è però un dettaglio importantissimo che accompagnò quell’elezione: l’astensione di Forza Italia, partito di maggioranza.
Nel gruppo azzurro 16 senatori su 18 si astennero, per le note tensioni che riguardavano all’epoca la formazione del governo Meloni. Ai 166 voti, raccolti da Iganzio La Russa (nel tondo), quindi andrebbero aggiunti i 16 voti di Fi. La riforma sul premierato potenzialmente potrebbe incassare al Senato 132 voti: per centrare il quorum dei 2/3 va recuperato il voto di 4 senatori. Un gioco da ragazzi, per Meloni e i suoi che sono certi di poter racimolare senza sforzi quattro voti, tra il gruppo Misto, autonomie, Italia Viva e il movimento Sud chiama Nord di Cateno De Luca. Senza contare che nel gruppo di Azione non mancano senatori favorevoli alla riforma. A Montecitorio il cammino è in salita. Ma l’obiettivo è comunque a portata di mano. Il traguardo dei 2/3 è fissato a 266 voti. Il centrodestra ai nastri di partenza ha 235 voti. Ne mancherebbero 31. I primi dieci voti potrebbero arrivare da Iv che apprezza la riforma: «Noi siamo convinti che l’elezione diretta del premier sia la strada giusta o non sarebbe stata nel programma del Terzo Polo. Il nostro non è però un voto a prescindere: vogliamo valutare bene il testo, presentare nostri emendamenti e se ci convincerà, lo voteremo» dice Raffaella Paita coordinatrice nazionale IV. Tattica. I dieci voti dei deputati renziani ci sono.
Avanti. Ne mancherebbero altri 21. Dove si pescano? Il capogruppo Fdi alla Camera Tommaso Foti ha una lunga esperienza parlamentare. Rapporti consolidati, stima trasversale e grande conoscitore del Palazzo: Foti potrebbe essere la carta vincente di Meloni per drenare gli altri 21 voti sulla riforma. Si guarda al gruppo Misto: i 9 deputati potrebbero garantire il proprio voto.
Ne servirebbero un’altra quindicina.

E non è escluso uno scambio con l’ala riformista del Pd. Meloni ha un asso da calare sul tavolo: il via libera al terzo mandato per sindaci e governatori che potrebbe far comodo a un pezzo di sinistra. Occhio a fare i conti senza l’oste.

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