Gran bazar Novecento: la vita è un’opera d’arte

Dalle foto alla moda: a Parma una mostra che raccoglie piccole e grandi testimonianze dell’ingegno italico

La nostra generazione, quella dei nati negli anni Sessanta, si è formata su Conoscere, una particolare enciclopedia che superava il credo evoluzionista e si dipanava in maniera «rizomatica» nel sapere a 360 gradi, includendo tutto: alto e basso, sacro e profano, umanista e scientista, nozionistico e divulgativo.

Sembra di sfogliare le pagine di quella divertente enciclopedia a colori e invece stiamo visitando «NOVE100», la grande mostra che ha aperto ieri al pubblico il Palazzo del Governatore a Parma, con una parte minima, seppur consistente, della collezione dello CSAC («Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma»), l’archivio universitario messo insieme da Carlo Arturo Quintavalle dagli anni Settanta e che raccoglie milioni (senza esagerare) di pezzi tra opere d’arte, fotografie, design, architettura, abiti e accessori.

Tocca dunque abbandonare il metro di giudizio che normalmente si adotta per una mostra, la pertinenza, la filologia, l’importanza delle opere, e immaginare di esserci trovati per caso nell’attimo in cui tale archivio è esploso, gettando alla rinfusa cose e oggetti di ogni genere, senza metodo ma con la passione del curioso, del topo di biblioteca, dell’esploratore di curiosità. Non c’è filo logico e non c’è ordine soprattutto nell’immenso repertorio fotografico, dove alle stampe dagherrotipe di fine Ottocento vengono accostati i reportage di cronaca, ai servizi sportivi le immagini dei nostri migliori autori (Ghirri, Giacomelli, Vaccari ecc...). Protagonista di questa vicenda folle e senza limiti è l’Italia, un Paese unico al mondo per l’incredibile ricchezza della provincia e dei piccoli centri. Mentre le metropoli scemano sullo sfondo come cartoline, il lusso delle cittadine, i paesaggi di campagna, le sovrapposizioni tra antico e moderno raccontano un Novecento italiano ricco di un’identità che stiamo, ahimé, irrimediabilmente perdendo. Accanto alla «grande Storia» della memoria condivisa hanno la stessa importanza le microstorie quotidiane, la vita in famiglia, il lavoro, il tempo libero e il divertimento di cui, noi italiani, eravamo cultori. Nel caos magmatico e informe scappano al curatore alcune immagini che non c’entrano nulla, ad esempio le foto di Pollock mentre dipinge scattate da Hans Namuth, ma nell’ossessione bulimica del mostrare tutto e più di tutto forse ci stanno anche loro.

La sezione riservata all’arte visiva è la meno convincente, non per la quasi totale assenza di capolavori (questo è un archivio, non un museo), ma perché insistita sulle zone d’ombra del nostro Novecento. La catalogazione si ferma all’Arte Povera, c’è solo un esponente della Transavanguardia, Mimmo Paladino, quindi si può ragionevolmente pensare che Quintavalle ritenga il Novecento come il secolo della modernità e che le avventure contemporanee siano già proiettate verso il nuovo millennio, un’altra epoca davvero. Ciò che lettori e visitatori devono sapere è che il professore parmigiano da quando ha cominciato questa gigantesca raccolta è riuscito a farsi regalare tutto e non ha mai sborsato un soldo. Anche per questo la ricerca non tocca il presente, conoscendo aridità e poca generosità degli artisti di oggi, in particolare nei confronti della cosa pubblica.
Oltre ad arte e fotografia, la mostra continua con la moda alla Galleria San Ludovico e l’architettura e il design alle Scuderie della Pilotta. Soprattutto quest’ultima sezione soddisfa, per la qualità dei materiali presentati (alcuni autori come Gio Ponti, Ignazio Gardella e Pier Luigi Nervi sono analizzati in vere e proprie piccole monografie) e per l’allestimento finalmente lineare.

Insieme ai disegni - grazie al cielo ci vengono risparmiate le planimetrie che sono il tormento del visitatore non specialista - compaiono quegli oggetti che hanno «fatto» il gusto italiano nel secolo scorso, quelle invenzioni formali e tecnologiche per cui eravamo i primi al mondo, negli anni Sessanta. È con orgoglio che ci accorgiamo che la Lettera 22 Olivetti o la televisione portatile Brionvega resteranno nella storia dello stile, con buona pace di cinesi, giapponesi, globalisti e taroccatori vari.

Il centro di Parma è tappezzato di locandine e manifesti che pubblicizzano «NOVE100», fin dal titolo-logotipico curioso e intrigante. Una sfida dunque indirizzata verso il grande pubblico, l’ambizione di coinvolgere anche chi normalmente il contemporaneo lo evita. Non si capisce allora per quale motivo la mostra sia del tutto sprovvista di apparati esplicativi (cronologie, curiosità, spiegazioni comprensibili, indicazioni di percorso) se si eccettuano le didascalie compilate da Quintavalle in persona, non proprio facilissime da decodificare. E questo è davvero un paradosso, perché, nonostante la massiccia ed efficace comunicazione, la mostra serve di più lo specialista, chi si trova a proprio agio tra i documenti, chi è dotato di cultura enciclopedica, insomma l’erudito, non certo il visitatore della domenica. Vizietto dei curatori di professione è la scarsa attenzione a chi, come diceva Totò, non è nato imparato.

Forse sono convinti che la chiarezza corrisponda a banalizzazione, guardassero allora i cataloghi del Centre Pompidou che dopo vent’anni sono ancora strumenti di lavoro e di apprendimento: l’arte non è mica soltanto per palati fini.

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