Controcultura

"Grandezza e oscurità nella mia vita da attore"

Sessant'anni sulle scene, dirigendo e recitando. Gabriele Lavia: "Amo misurarmi con i capolavori inafferrabili"

"Grandezza e oscurità nella mia vita da attore"

In sessant'anni di carriera e ottant'anni compiuti da poco, Gabriele Lavia ha sviluppato una filosofia del teatro che va prima di tutto oltre il proprio teatro: sostiene di non avere lasciti né dogmi, di non sapere davvero niente (anche se sta scrivendo un libro di tecnica per giovani attori). Il che lo porta a una continua ricerca, a lavorare ogni giorno, tutto il giorno, addentando al volo «Un pezzo di qualcosa poco fa, ora non ricordo cosa fosse, ma buonissimo», aspettando la fine delle prove per andare a cena. Prova di continuo, Lavia, corregge, aggiusta, in modo infinito e infinitesimale. In questi giorni è la volta della ripresa di stagione de Il berretto a sonagli di Luigi Pirandello, che dirige anche, oltre ad interpretare il ruolo dello scrivano Ciampa, accanto alla moglie Federica Di Martino nel ruolo di Beatrice: sarà a Roma da martedì 8 novembre, al Quirino, per poi muoversi in una tournée che al momento si prevede finirà a marzo 2023. Nel frattempo gira un film, ancora senza un titolo, con la regia di Pupi Avati e con Edwige Fenech e Massimo Lopez. Inarrestabile.

Un altro anno di Berretto a sonagli: ormai è il «suo»?

«È troppo grande per poter dire L'ho capito. L'ho fatto, come tutti i grandi autori, attraverso la notte senza stelle: la loro opera è nera. Ti addentri: a volte ci prendi, a volte sbagli sentiero».

Nel teatro che sentieri ha preso?

«Prendo sempre direzioni particolari. Non perché io sia particolarmente bravo: è la direzione che sceglie me. Vado sempre dove sono già stato anche se non ci sono mai stato: andiamo sempre a casa nostra, anche se andiamo a scoprire nuovi mondi. Ho avuto la fortuna di fare Amleto, Otello, Macbeth, Re Lear, Il gabbiano, Il giardino dei ciliegi: non mi hanno fatto fare le Tre sorelle, perché non c'era la parte per me. E questo è stato un grande dolore, ormai non credo che me lo faranno fare più: hanno sbagliato. Comunque, ho avuto la fortuna di fare solo cose importanti e quindi, avendo fatto solo cose importanti, ho avuto il destino di farle sempre malissimo. Come fai a fare Amleto e dire Ho fatto bene Amleto?. Se dici che hai fatto bene Amleto hai fatto un disastro: Amleto si può solo fare male, non arrivi mai. Come in Martin Heidegger, gli Holzwege, quei sentieri di montagna, nel bosco, che non sono segnati. Sono più corti, ma ci metti più tempo».

Come li supera?

«Tutto quello che può fare un interprete, o un regista, è camminare lungo i bordi, per non cadere nell'abisso. Come l'amore: che cos'è l'amore? Che siamo tutti felici? Che ci alziamo la mattina, ci diamo dei bacini, stiamo mano nella mano e facciamo colazione insieme? No, l'amore è un inferno: l'uomo è un essere del buio. Pittura, scultura, musica, teatro, cinema sono lampadine che possiamo accendere. Ed è già tanto».

E il pubblico dove lo collochiamo in questo abisso?

«Io lo so il pubblico com'è, lo conosco molto bene: so già che cosa piacerà, che cosa non piacerà, che cosa non capirà. Quello che piace a me è il pubblico normale, che viene a teatro il giovedì pomeriggio: le signore, che vengono da sole con la loro borsetta e scartano le caramelle facendo un rumore assordante. Mi sono simpatiche perché non capiscono che un attore là sopra sente la caramella e ha un solo desiderio: uccidere. Ma nell'antica Grecia andavano a teatro e mangiavano durante lo spettacolo e pure nel teatro elisabettiano: il teatro è fatto così e bisogna saperlo, nel paganesimo si mangia, va bene così. Potrei davvero uccidere solo chi fa squillare il telefonino. C'è anche chi sfoglia il telefonino. Il primo lo ucciderei: è vero che nessuno sa che cos'è il teatro e che il mondo è precipitato verso il buio dell'ignoranza, però lo ucciderei».

E il secondo?

«Una caracca, come dicono a Roma, dietro la testa».

Che cosa si perdono, il primo e il secondo?

«Un tentativo maldestro di avvicinarsi all'assoluto. Perciò non mi meraviglia che oggi sia marginale, ma non per questo meno importante. E non mi meraviglia che molti registi magnificati non sappiano manco cosa vuol dire teatro: vedo cose terrificanti, che mi fanno capire che non hanno nemmeno finito le scuole».

Motivi di marginalità del teatro, oggi?

«Arte è precipitare, non stare mai a proprio agio. Invece oggi ognuno si accomoda, ha i suoi luoghi di riferimento, sente i suoi odori, le sue puzze. E gli piacciono. Come Halloween: un'altra stanzetta puzzolente».

Che cosa la spinge ad andare ancora in scena, allora?

«Non faccio uno spettacolo perché il pubblico lo capisca, faccio uno spettacolo che sia bello. Cos'è il bello? Quello che si fa guardare, che ti guarda. Pirandello rappresenta una umanità brutta, ma noi non diciamo Che brutto spettacolo, anzi Che bello che era: hai visto quei personaggi tutti così schifosi e laidi?. Il bello non è qualcosa che assomiglia alla Madonna o a qualche santo con l'occhio verso il cielo. Il bello è la qualità del vero».

Qual è la verità di Pirandello?

«Un mondo chiuso dentro un'unica visione, per cui non ha altra scelta che mascherarsi. Al centro del Berretto a sonagli, c'è una donna che sa la verità: Glielo farò vedere io al cavalier Fiorica mio marito, tutti devono sapere chi è. E nel momento in cui questa donna sta per togliere la maschera e svelare il marcio del cavaliere - che non si vede mai, che è un simbolo - c'è un solo modo per la società di difendersi: dire che è pazza. Questo personaggio incarna la donna che vuole una libertà di mente e quindi diventa pericolosa: bisogna isolarla».

Per enfatizzare la pressione sociale ha lavorato sulla lingua.

«Mi sono preso una libertà molto grossa come regista: tradire Pirandello e fare una mescolanza. Pirandello ha scritto il testo in siciliano e poi l'ha tradotto in italiano. Magnifico. Io ho preso le due versioni e le ho mescolate. È venuto un pasticcio che conserva il suono originale: le cameriere parlano in siciliano, Ciampa è a metà strada tra il mondo borghese e il mondo popolare e parla uno strano siciliano italianizzato. Il mondo borghese parla un italiano perfetto. Non mi piace fare spettacoli definitivi, quindi anche questo risultato è provvisorio. Il che vuol dire che è curatissimo».

Ma alla sua età potrà ben dire di aver capito qualcosa del teatro.

«Ormai sono tra i più vecchi della popolazione e non ho capito niente. Dirò però che non capire è un metodo: il più grande regista è quello che fa le cose senza capirle. Un passo in avanti oltre la comprensione c'è il taglio di Fontana: si può spiegare il taglio di Fontana? No».

Avrà allora un modello, lo spettacolo più bello della sua vita?

«Un giorno andai a Milano con un pullman, eravamo ragazzi, per vedere il Galileo di Brecht con la regia di Giorgio Strehler: quello spettacolo rimane il più bello che abbia mai veduto nella mia vita. Tutto quello che ho visto dopo è robetta, cosette. Quello, folgorazione già quando entrammo in sala, con la musichetta iniziale. L'ho visto dodici volte. E di volta in volta gli attori lo peggioravano. Persino Tino Buazzelli, che di certo pensò: Ma chi è questo malato di mente che viene sempre?. E mi chiese: L'ho fatta bene stasera, eh, era mejo?. Scusi, ma no, la più bella era la prima.

Perché Tino non resisteva a cambiare, a improvvisare: Non capisci un cazzo, a Gabriè, m'ha detto».

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