Il 5 maggio del 1985 il cancelliere tedesco Helmut Kohl visitò, con il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, il cimitero militare di Bitburg. Fra migliaia di soldati c'erano sepolti anche 49 uomini delle Waffen-SS e il giorno dopo Gunter Grass - non ancora premio Nobel, ma già «coscienza morale» della Germania - tenne un discorso durissimo rimproverando a Kohl la visita, perché le SS erano truppe scelte del partito nazista. Kohl si limitò a rispondere, dignitosamente, ricordando che 32 dei 49 caduti erano giovanissimi, 17, 18, 19 anni. E che, forse, potevano avere diritto alla benevolenza della memoria.
A parte l'interessato, nessuno poteva sapere che fra quei giovanissimi delle SS avrebbe potuto esserci anche Grass. Il quale soltanto l'anno scorso, nel libro di memorie Sbucciando la cipolla (Einaudi, pagg. 384, euro 15,20), ha rivelato di non avere fatto soltanto parte della contraerea, come aveva sempre fatto credere, ma di essere stato arruolato appunto nelle SS, dopo avere chiesto invano di entrare nei sommergibilisti o nelle truppe corazzate di Rommel: «Come membro della Hitlerjugend ero un giovane nazista. Non ero fanatico, ma riflettendo con lo sguardo alla Bandiera che, si diceva, valeva più della morte, restai nei ranghi, uso a marciare al passo». E ancora: «Per assolvere quel giovane come me, non si può neppure dire ci hanno sedotti!. No, noi ci lasciammo sedurre, io mi lasciai sedurre». Per sua stessa ammissione, Grass si convinse delle atrocità commesse dai nazisti soltanto quando furono ammesse dal capo della gioventù del Reich Baldur von Schirach, durante il processo di Norimberga, nel 1946: non prima, né vedendo i disertori impiccati agli alberi e neppure a guerra finita, quando venne portato «in visita di rieducazione» nel campo di concentramento di Dachau.
L'uscita del libro in Italia - in questi giorni, da Einaudi - ripropone il tema dei cattivi maestri, ovvero di quelli che predicano (non sempre bene) dopo avere spesso razzolato male. Un problema arcinoto in Italia. Basterebbe ricordare il caso di Alberto Moravia, moralizzatore di sinistra che aveva scritto sui giornali fascisti e si era raccomandato a Mussolini, senza poi volerlo ricordare; o quello simile di Norberto Bobbio, venerato dalla sinistra postcomunista finché vennero scoperte sue lettere compromettenti. Ma i casi, da noi come in Germania, sono centinaia, per limitarsi ai più illustri. Un recente saggio di Mirella Serri (I Redenti, Il Corbaccio) illustra il caso degli «intellettuali che vissero due volte»: dopo essere stati fascisti, diventarono comunisti, vezzeggiati e ben utilizzati dal Pci per instaurare il monopolio culturale con il quale la sinistra ha condizionato la recente storia d'Italia.
Il caso di Grass è diverso, perché non si può imputare a un ragazzino - che aveva 17 anni nel 1944 - un amor di patria che in quel momento era necessariamente associato al nazismo. Non si può, anche se da noi è stato fatto più e più volte, da entrambi gli schieramenti. Un grande scrittore come Carlo Mazzantini, per esempio, ha sofferto di un lungo ostracismo perché a 19 anni andò a combattere per la Repubblica Sociale Italiana. La stessa militanza viene continuamente rimproverata a Dario Fo, che ha un anno meno di Grass e uno più di Mazzantini. Fo ebbe il Nobel perché rinnegò subito la sua partecipazione alla Rsi, e perché arruolarsi per sfuggire al lavoro forzato in Germania è ben diverso dall'entusiastica appartenenza alle SS.
In Germania non sono stati pochi i letterati, che, come Mazzantini, sono stati danneggiati o addirittura rovinati dalla scoperta del loro passato nazista, senza che Grass sia mai intervenuto per difenderli. Il «problema Grass», dunque, sta tutto nel suo silenzio, durato oltre sessant'anni. La sua spiegazione non convince: «Non so bene perché ho taciuto», spiega in un'intervista. «Ma quel ricordo è sempre stato presente ed ero dell'idea che bastasse tutto quello che facevo come scrittore, come cittadino di questo Paese, perché era il contrario di ciò che mi aveva impregnato in gioventù al tempo del nazismo».
E in un'altra intervista: «Reclamo il diritto di tenere per me le mie vicende fino a quando trovi la maniera giusta di esprimerle». Sono risposte davvero stravaganti per uno scrittore che ha fatto della memoria il centro della propria opera narrativa e che ha detto la sua praticamente su tutto, trovando sempre le parole che gli sembravano giuste. È allora lecito pensare che il vero motivo del silenzio siano stati altri. Grass sapeva che, se avesse confessato prima i trascorsi giovanili, «tutto quello che faceva come scrittore», come coscienza morale di una certa Germania, gli sarebbe stato facilmente contestato. Come i suoi numerosi interventi contro l'imperialismo americano, in generale e specialmente riguardo alle guerre del Vietnam e in Irak, contro quegli stessi americani che aveva combattuto con le armi da ragazzo e che, però, avevano liberato il mondo, i tedeschi e lui stesso dal nazismo. E sapeva che, nonostante le sue ambizioni e la qualità del suo lavoro, non avrebbe mai avuto il Nobel per la letteratura che ottenne nel 1999 dopo averlo inseguito per decenni.
Infine una confessione a quasi ottant'anni, oltre a essere tardiva, è sospetta perché si sapeva che dagli archivi storici dell'esercito tedesco stavano uscendo i documenti sui prigionieri di guerra nei campi americani. In una di quelle schede, alla voce «unità di appartenenza» c'è scritto «Waffen-SS»; in basso, la firma: Gunther Grass.
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