nostro inviato a Nassirya (Iraq)
C’è un silenzio quasi religioso nella sala. Si sente solo il lieve rumore del rosario sgranato nelle mani di alcuni spettatori. Proiettano un film, a Nassirya, dopo 5 anni di black out totale ed è il film «Ahlaam» (Sogni) del giovane regista iracheno Mohamed Al Daradji. Parla del terrore e della guerra prima e dopo la caduta di Saddam Hussein e c’è chi piange silenziosamente, assistendo alle scene di violenze, di bombardamenti, di disperazione. Ma per tutti è come un piccolo miracolo purificatore quello che riporta il cinema in questa provincia meridionale dell’Iraq. Lo ha reso possibile l’impegno del Provincial Recontruction Team alleato guidato dall’italiana Anna Prouse, che ha voluto questo evento nel nuovo centro culturale che ha creato nella quarta città irachena. «Nel mio Paese - dice Al Daradji- se hai una telecamera sei visto come un pericolo. É così da tanto tempo. Verso il cinema pesa sempre il sospetto dei potenti. Negli anni ’60 le sale cinematografiche erano 250, diventarono la metà negli anni ’70 e oggi sono 18, ma solo 4 funzionano. Ecco perchè questa proiezione, oggi, è così importante». Per girare «Ahlaam», che dal 2006 è stato presentato in 85 Film festival nel mondo compreso Berlino, ha ottenuto 19 premi internazionali ed è stato preso in considerazione per l’Oscar 2007, il trentenne regista e la sua troupe hanno sfidato seri pericoli: rapimenti da parte degli estremisti, fughe rocambolesche, ferimenti da parte degli americani. «Ma quando sei iracheno - dice Al Daradji, con fatalismo- sei già abituato ad affrontare ogni sorta di ostacoli. E poi vieni ripagato con grandi gioie come queste». L’applauso che lo saluta nella sala è caldo e riconoscente e durante la proiezione, sul piccolo schermo artigianale coperto da un lenzuolo bianco,la gente batte le mani in due momenti significativi: quando si vede un uomo che copre con rabbia i manifesti con la faccia di Saddam e quando uno dei protagonisti raccoglie la donna che ha il nome di Ahlaam tra le rovine di un bombardamento e, per prima cosa, le chiede: «Dov’è finito il tuo velo?». É un film girato per gli iraqueni questo, rispettando la mentalità islamica, anche se il regista vive da anni in Gran Bretagna, dopo essere fuggito dal suo Paese nel ’95 ed essersi laureato in cinematografia in Olanda. Trovare l’interprete femminile non è stato facile, soprattutto perchè nel film c’è una scena di stupro, anche se appena accennata. Molte attrici hanno rifiutato la parte e alla fine quella che ha accettato ha ottenuto che fossehè il suo vero marito interpretava l’aggressore. Solo così la scena è stata accettabile per il pubblico musulmano. «Ora sto finendo di girare il mio secondo film - dice Al Daradji-, si chiama “La madre di Hossein“ e racconta di una donna curda che attraversa il Paese dal nord al sud alla ricerca di un figlio disperso durante la guerra del Golfo. La sua storia s’intreccia a tante altre, accomunate dal dolore». Parla ancora dell’Iraq prima e dopo il fatidico 2003, ma ora il regista vuole guardare avanti. «Ora basta con la guerra - dice-: il futuro del nostro Paese non è chiaro, ma noi sognamo solo una vita normale». Proprio per aiutare questo ritorno alla normalità lavora la task force guidata dagli italiani, che intende la ricostruzione a cominciare dalle menti.
«C’è una gran voglia di cinema - spiega Fabiana Maglio, che nella squadra si occupa delle iniziative culturali- e per il 2009 stiamo organizzando una scuola di cinema con l’aiuto di quella nazionale di Roma, un corso e un festival sull’arte del documentario, con registi che verranno dall’estero e una vera e propria rassegna cinematografica».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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