Mondo

«Grazie Italia», i nostri soldati lasciano l’Irak

Il buon esito di «Antica Babilonia» motivato con i positivi rapporti sviluppati con le autorità locali. Il ministro della Difesa ribadisce: «Non si tratta di una ritirata»

Luciano Gulli

Ce ne andiamo. Non è una fuga precipite, e d’altronde il passaggio di consegne alle autorità irachene era previsto, annunciato, annunciatissimo. Passeranno ancora mesi, si dirà - tre se non quattro - prima che l’ultimo soldato della spedizione «Antica Babilonia» lasci le sabbie roventi del meridione iracheno. Ma per la gente di Nassirya e della più grande provincia di Dhi Qar, che aveva imparato ad apprezzare il lavoro dei militari italiani, e a volerci bene, la cerimonia di ieri mattina a Camp Ur ha avuto ugualmente il sapore di uno strappo affettivo, di una separazione che consensuale - al di là delle dichiarazioni ufficiali - non è.
Portiamo a casa risultati «splendidi», ha riconosciuto il ministro della Difesa Arturo Parisi, senza tuttavia sentire il dovere di ricordare che i risultati «splendidi» - e la fatica, e i morti che ci sono costati - sono stati pensati, tenacemente voluti e ottenuti dall’amministrazione che ha preceduto quella affidata a Romano Prodi. E ancora: «L’Italia è un Paese che mantiene i suoi impegni e completa le sue missioni», ha aggiunto Parisi rivolto al premier iracheno Nour Al Maliki, presente al passaggio di consegne.
Ma il complimento più bello, per i militari italiani schierati sull’attenti, è venuto dal comando britannico, sotto la cui giurisdizione cade la missione «Antica Babilonia». È stata una bella soddisfazione sentir dire al maggiore Charlie Burbridge, portavoce del generale Richard Shirreff, che «gli italiani hanno avuto un grande successo». E che «la chiave del loro successo è nell’aver sviluppato buoni rapporti con le autorità locali e il governo di Bagdad, rendendo così possibile il passaggio di consegne alle forze irachene». Ha solo dimenticato di aggiungere, il maggiore Burbridge, che il successo ce lo siamo guadagnato facendo magnificamente il mestiere dei soldati senza tuttavia trascurare i problemi reali, concreti, di una popolazione stremata e immiserita da guerre vecchie e nuove.
Abbiamo cominciato nel giugno del 2003, e da allora abbiamo realizzato 592 interventi di cooperazione civile riparando o costruendo di bel nuovo scuole (104 interventi), ospedali e astanterie (90), costruendo o ammodernando pozzi, impianti idrici, centrali elettriche (89). Per non dire della miriade di interventi grandi e piccoli compiuti nell’edilizia pubblica e nelle infrastrutture, campi giochi per i bambini compresi.
Se ne andranno i soldati, ha detto il ministro Parisi rivolto al governatore della provincia, Aziz al Ogheli; ma il contributo dell’Italia proseguirà sotto il profilo politico ed economico, «attraverso una presenza civile che cercherà di coprire tutti i campi in cui pensate possiamo esservi utili». Resteranno una manciata di militari, ma saranno inquadrati nell’ambito della missione addestrativa della Nato. Tramonta definitivamente il progetto di mettere in piedi una struttura di cooperazione civile-militare (sul modello di quella che gestiamo a Herat, in Afghanistan) lanciata dal precedente governo, giacché essa avrebbe richiesto la presenza di alcune centinaia di soldati anche dopo la conclusione della missione per la quale eravamo partiti.
Agli iracheni che assistevano, costernati, alla cerimonia «d’addio», il ministro Parisi ha rivolto parole di fervido incoraggiamento. Sicché, alla fine, chi ci ha dato fiducia in tutti questi anni non si sentirà forse tradito. «L’Italia non è un Paese che si ritira. Allorché l’Italia promette che resterà sino a quando le condizioni di sicurezza non saranno pienamente ristabilite in un’area - ha ribadito Parisi - voi sapete e dovete sapere che potete contare sulla sua promessa qualsiasi siano le condizioni».
Ci abbiamo rimesso 33 vite umane, compresa quella del funzionario del Sismi Nicola Calipari, ucciso per errore dagli americani. E compresa quella del caporal maggiore Massimo Vitaliano, morto ieri mattina vicino Nassirya in un banale incidente stradale. «Caduti il cui sangue rende indelebile - ha ricordato Parisi - il passaggio degli italiani in questa terra e che ad essa ci lega per sempre».
Il pensiero corre ai 17 militari e ai due civili morti nell’attentato del 12 novembre 2003 nella base «Maestrale» dei Carabinieri; ai quattro caduti nello schianto di uno dei nostri elicotteri, nel marzo del 2005; alle quattro vittime dell’attentato compiuto il 27 aprile di quest’anno al passaggio di un convoglio della nostra Msu, e agli altri morti nel compimento di una missione sempre dura e difficile.

È bello pensare che non saranno stati morti inutili.

Commenti