nostro inviato a Montreal
Suo padre Artur doveva vederlo domenica sera come noi. Si sarebbe tranquillizzato, lui che quella domenica pomeriggio, mentre in Polonia commentava in tv la telecronaca del gp, è sbiancato, si è ammutolito, si è chiuso disperato in uno stanzino a telefonare e pregare che il figlio fosse vivo. Papà Artur avrebbe dovuto vederlo lì, sorridente, in ospedale, quando ha detto «venite avanti». Se ne stava sdraiato e insofferente su un lettino coperto da un lenzuolo dalla cinta in giù. Come vestiti, solo la flebo nel braccio e tutti quei sensori. Perché i bollettini e le diagnosi dicevano che stava bene, anzi benissimo, ma nessuno, a cominciare dai luminari del Sacro Cuore di Montreal, ci credevano. Come ha fatto questo ragazzo ad avere solo qualche livido? «Sto bene, quasi non capisco perché sono qui. Vorrei andar via, però venite avanti», ripete ancora, quasi a voler dimostrare che non è un fantasma. Attorno ha le infermiere, una guardia. Due tifosi polacchi con i fiori. «Adesso voglio solo correre domenica, a Indy, ce la farò (dovrà attendere l'ok del medico Fia, ndr)». Ma per i dottori canadesi è tutto a posto. Accanto a lui, solo il casco arancione con la dedica al Papa. Non ha praticamente un graffio. Robert ha un solo momento di cedimento: hai visto l'incidente? «No, non voglio proprio. Immagino sia stato spaventoso, vero?». Vien da pensare che la dedica al Papa ti abbia aiutato? Sorride imbarazzato: «Forse sì», si lascia sfuggire.
Il giorno dopo lurto terrificante, prima di andar via, aggiunge: «Ricordo tutto, sono stato fortunato, si è trattato solo di un incidente di gara, non è colpa di nessuno».
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