Il fattore G è come la nuvoletta di Fantozzi: da mesi, scarica acqua di tempesta quasi esclusivamente sui titoli bancari. Con la spia rossa dell’emergenza tornata ad accendersi sulla Grecia, il settore ha dovuto giorno dopo giorno ricalibrare le proprie prospettive sulla base del tourbillon di ipotesi circolate sul destino ellenico: dall’ipotesi tragica di default, alle ristrutturazioni declinate nella versione hard (taglio del capitale) e in quella soft (riscadenzamento del debito), fino all’ultima ratio, il tafazziano ritorno alla dracma.
Il bilancio da inizio anno è da brividi per gli investitori con azioni del credito in portafoglio. Con l’eccezione di chi ha puntato su Mediobanca (+12%) e Mediolanum (15%), certo non due archetipi della banca tradizionale, e su Unicredit (-2%, ma -15% da marzo) e Mps (invariata, -9% da marzo), mentre Banco Popolare (-40%) guida la classifica delle perdite, seguita dalla Popolare di Milano (-30%), Ubi (-19%) e Intesa Sanpaolo (-14%). Una teoria di ribassi che si è allungata pure ieri con cali anche superiori all’1%. Insomma: alle banche italiane non è bastato uscire quasi indenni dalla peggior recessione dalla Seconda guerra mondiale, né avere un’esposizione verso la Grecia tutto sommato contenuta, per mostrare spalle sufficientemente robuste da alzare di fronte alla crisi del debito europeo.
Il fatto è che senza la rimozione del fattore G i mercati continueranno a restare instabili, vittime di rumor spesso incontrollati. E per le banche italiane impegnate nell’azione di rafforzamento patrimoniale imposta dagli accordi di Basilea III, tutto si complica. Il costo del funding è considerato del resto un tema chiave per l’intero settore bancario. A sollevarlo è stata di recente Standard&Poor’s con la decisione di tagliare l’outlook di Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Bnl e Findomestic, motivato con la dipendenza degli istituti dal mercato domestico. È evidente che in un Paese come l’Italia, destinato a crescere poco anche nei prossimi anni e con l’esigenza di tenere i conti pubblici sotto stretto controllo, i margini delle banche non potranno essere consistenti come in passato. Neppure in presenza di ulteriori aumenti dei tassi di interesse, che la Bce piloterà senza strappi, mentre i costi di finanziamento peggiorerebbero se il rating sul debito italiano venisse tagliato. «Non siamo la Grecia, il Paese ha un problema di debito e deficit, ma assolutamente non è insolvente», ha affermato ieri il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia.
Per le banche italiane si pone, comunque, il problema di chiedere quattrini agli azionisti in un momento poco florido a livello nazionale, di turbolenza oltre confine e di forte concorrenza internazionale sul versante delle ricapitalizzazioni. Intesa Sanpaolo ha in corso un aumento di capitale da 5 miliardi di euro, e l’andamento dei diritti non sembra indicare un esito particolarmente brillante nonostante lo sconto del 24% sulla quotazione. In attesa delle mosse di Mps e Ubi, una diminuzione di prezzo ben maggiore, tipo il 40% deciso da Commerzbank o il 50% praticato durante la crisi, potrebbe essere necessaria alla Milano per mandare in porto un’operazione da 1,2 miliardi. E resta da vedere come si comporteranno i consorzi di garanzia, che proprio per il timore di inoptato potrebbero chiedere sconti maggiori.
La variabile cruciale resta tuttavia la Grecia.
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