Roma - Ora come ora, il Greggio non ha prezzo. Soprattutto perché Ezio, il mattatore di Striscia, è diventato più prezioso all’alba dei suoi cinquantaquattro anni, portati con istrionica baldanza in uno sciamar di veline. A dargli carisma d’attore serio, anzi, drammatico, ci ha pensato Pupi Avati, il regista classe 1938, che l’ha fortissimamente voluto nel ruolo di Sergio Ghiaia, un poliziotto fascista alle prese con un delicato caso di coscienza, nel film Il papà di Giovanna, scritto e diretto dal cineasta bolognese e pronto per sbarcare al Festival di Venezia. Incredibile a dirsi, ma mentre lo showman cerca le veline del tg satirico di Canale 5, puntando sul rosso («una velina sarà mora, l’altra la vorrei non bionda», scherza come al solito il proteico artista biellese, dal 10 giugno al 20 settembre indaffarato con la terza edizione di «Veline in tour», ereditando il testimone da Teo Mammuccari), eccolo piroettare verso un’altra carriera. Tessuta di copioni densi e di set impegnativi. Per quanto, chiamare «Le velineeee!» in tivù con quel suo tipico urlo ironico-disperato, non è uno scherzo: ce ne vuole, di senso drammaturgico, per non scadere nella farsa. Del resto, se il termine «veline» è entrato nel Dizionario dell’Accademia della Crusca, un po’ è anche merito di quella certa puntigliosa serietà, che Ezio Greggio mette nel suo lavoro. Sarà per questo che Avati, già sdoganatore di Katia Ricciarelli, da lui lanciata sul grande schermo, l’ha visto bucare il telone bianco, oltre al video, di fatto inserendolo nell’empireo del cinema d’autore. Abbronzato, dopo le riprese marine sul set dei Vanzina (il 27 giugno vedremo Ezio nella pellicola da ombrellone Un’estate al mare), scarpe da jogging bianche sotto ai jeans frusti, ma firmati, Greggio parla del suo debutto al Gran Ballo degli Interpreti Seri.
Caro Ezio Greggio, qual è il suo ruolo ne Il papà di Giovanna?
«Siamo tra gli anni Trenta e i Quaranta, dunque mi aggiro in una Bologna ancora affamata, dopo la guerra, nella veste di un poliziotto. Che ha per amico un padre, cioè Silvio Orlando, spesso in bolletta e sempre alle prese con una figlia assai disturbata, Alba Rohrwacher. Da persona decisa, ma di buon cuore, aiuterò entrambi. E non solo economicamente».
Lei ha una forte vena scherzosa: come ha fatto a calarsi nella parte dell’uomo d’ordine, per di più fascista?
«Non porto il fez, né giro in orbace, lo giuro! Anzi, ho accettato il ruolo, proprio perché ho capito che Pupi si allontanava dallo stereotipo olio-di-ricino-e-manganello. Regalandomi un’opportunità fantastica».
Come s’è trovato sul set, con un attore impegnato come Silvio Orlando, icona del «morettismo», lei icona, invece, del «velinismo»?
«Nessun timore, anche perché ho molta esperienza. Nei film di Mel Brooks, col quale ho scritto, prodotto e diretto Svitati, tra l’altro, i tempi comici imponevano una disciplina non dissimile da quella che devi darti su un set come quello di Avati. Poi, mi piace cambiare. Parlando di “velinismo”, voglio puntualizzare che Roberta Lanfranchi è diventata una conduttrice eccellente, mentre la Canalis e la Barolo hanno intrapreso la carriera d’attrice».
D’altronde, non è stato Vittorio Gassman, maestro di scena come pochi, a insegnarle il grido «Le velineeeee!?»
«Proprio così. E la cosa bella è che Avati mi ha paragonato al Gassman giovane. Un giorno il grande attore venne a trovarci in trasmissione e mi chiese se poteva farlo lui, l’annuncio: si tirò su i pantaloni e se ne uscì con quell’urlo belluino, che ho ripreso pari pari. Lì ho come avuto un’agnizione: si poteva fare parodia con l’aria di enunciare un teorema d’alta geometria».
Ha preso parte a commedie dirette da Oldoini, Castellano e Pipolo, Neri Parenti, Vanzina: che tipo di regista è, invece, Pupi
«Mi riconosco nello scrupolo filologico con cui rumina ogni sequenza, ogni singola battuta. Per lavorare con lui occorre essere molto concentrati: un po’ come prima di tirare un rigore. Lui ti mette voglia di fare gol».
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