Cultura e Spettacoli

GREGORIO VII Una Chiesa per tutti

Chiuso nella torre. Isolato. Come al principio, quando si era fatto monaco a Cluny, quando non era nient’altro che un monaco, Ildebrando di Soana. E ora invece era l’unico, il solo servus servorum Dei, il vicario di san Pietro, l’uomo che può sciogliere e legare, il sole da cui deriva la luce ai pianeti... Ma un sole in eclissi, chiuso com’era a Castel Sant’Angelo, con i nemici ormai padroni di Roma. Il popolo e i patrizi della capitale l’avevano difeso per quasi tre anni, dal 1081, quando lo scomunicato, con tutto il suo seguito di armati e di preti simoniaci, aveva stretto d’assedio la città. Ed il tedesco era entrato, ma l’estate romana aveva decimato le sue file, consigliando una ritirata. Poi era tornato di nuovo, l’anatematizzato, il re di Germania Enrico, l’umiliato di Canossa: quanti anni erano passati da allora, da quell’inverno del 1077? Troppi. E questa Pasqua del 1084 sarebbe stata un vero calvario per il papa, quel Gregorio VII che avrebbe dato nome a tutta un’epoca, la «riforma gregoriana» del secolo XI.
Nel marzo del 1084 Gregorio VII è rintanato nella fortezza imprendibile di Castel Sant’Angelo. Roma però non gli appartiene più: il patriziato, il popolo, persino molti membri del clero si sono arresi davanti al re tedesco. Anche il cancelliere pontificio è passato all’altra sponda, giusto in tempo per presenziare a ciò che, per il papa asserragliato, rappresenta l’abominio, lo scatenarsi dell’Anticristo: re Enrico mette sul trono di San Pietro un altro papa e, nel giorno santissimo di Pasqua, l’antipapa lo incorona imperatore con il nome di Enrico IV.
Elezione illegittima, la sua. Non mancava per esempio il vescovo di Ostia, cui spettava la funzione essenziale dell’unzione imperiale? Ma Gregorio non poteva gridare più di tanto il suo sdegno per il mancato rispetto delle norme: non era anch’egli stato eletto in maniera irregolare nel 1073? Già, perché il primo dato che balza agli occhi di chi osserva quelle vicende così apparentemente lontane sembra essere il ripetersi delle irregolarità, quasi che questa fosse la norma. E invece no: perché le norme non c’erano sino a una-due generazioni prima, ma dalla metà dell’XI secolo tutto era cambiato. Tutto stava cambiando. E il sintomo primo di questo cambiamento stava proprio nel fatto che i protagonisti di quelle vicende romane ed europee sapevano di commettere qualcosa di irregolare. La norma era stata fissata, l’irregolarità era divenuta abnorme.
È questo uno dei tanti risvolti della vera e propria rivoluzione che investì allora l’Europa. Gli storici danno vari nomi a quel periodo intenso e drammatico: «riforma gregoriana», oppure semplicemente «riforma della Chiesa», ma anche «lotta per le investiture», «lotta per il primato». Su un punto però c’è accordo: in quei decenni il mondo occidentale cambiò profondamente, anche attraverso contrasti al calor bianco. In quegli anni si formò, sia pure non senza eccessi ed abusi, un’idea portante, un valore irrinunciabile, scegliete voi; io direi l’essenza stessa dell’Occidente, la sua anima e il suo corpo, ovvero l’affermazione del valore supremo dell’uomo in quanto persona e dei limiti del potere temporale. E di quello spirituale.
A Gregorio VII e al suo tempo è dedicato un nuovo lavoro di Glauco Maria Cantarella, Il sole e la luna. La rivoluzione di Gregorio VII papa (Laterza, pagg. 354, euro 22), il quale tratta con maestria la complessa serie di piani - teorico e pratico, ideale e ideologico, politico, militare ed economico - sui quali si giocò allora il destino della Cristianità europea. Cantarella dipana con abilità comunicativa - cioè retorica - la matassa di quei dodici anni di pontificato, quando Gregorio VII brandì il vessillo dell’unità della Chiesa dietro il comando indiscutibile - non indiscusso - del vescovo di Roma, giungendo sino a scomunicare e deporre il re di Germania e candidato all’Impero. Lo storico mette anche bene in luce i rischi connessi con l’operazione perseguita dal grande papa: ovvero cercare di ribaltare il rapporto, mettendo il potere sacerdotale (cioè appunto quello del papa) sopra a quello regio. È la grande tentazione della teocrazia, cui la Chiesa deve sempre sottrarsi, perché «il suo regno non è di questo mondo». Ma si deve riconoscere che pure gli eccessi dei riformatori derivavano da un obiettivo nobile, cioè la difesa a oltranza del lato spirituale della Chiesa, che non può mai ridursi a mercimonio.
Per sostenere una simile visione ci fu bisogno di una volontà di ferro, di un’adesione senza riserve - ma non priva di una certa flessibilità, a seconda degli interlocutori e delle occasioni - a un modello perseguito più nei fatti che nelle elaborazioni teoriche, anche se le ventisette frasi di quello strano e famosissimo documento che è il (o sono i) Dictatus papae restano lì a testimoniare una coscienza teoretica formidabile. Troppo azzardata è invece la ripresa di un’infelice immagine che paragona Gregorio VII a quel macellaio di Lenin; e mal scelto anche il titolo, perché troppo simile a quello di un libro-monumento dello storico austriaco Othmar Hageneder, edito nel 2000 da Vita e Pensiero; tanto più che la figura cara a Gregorio VII, per qualificare il ruolo del pontefice romano, era quella dell’oro in rapporto al piombo, come pure mostra Cantarella.
Il tema della Libertas Ecclesiae, intesa come «libertà per tutti» è al centro anche di una mostra del Meeting di Rimini che si apre domenica prossima. Curata da un’équipe sotto la guida di Maria Pia Alberzoni, docente di Storia medievale alla Cattolica di Milano, la mostra corre dal Tardoantico al Medioevo sino ai nostri giorni, attraverso una corona di personaggi eccezionali: oltre a Gregorio VII, Costantino, sant’Ambrogio e sant’Agostino, Gregorio Magno, Thomas Becket e Thomas Moore, sino ai martiri dei totalitarismi del XX secolo. «Libertà della Chiesa» significa la chiara distinzione fra potere politico e potere religioso, verificatasi pienamente solo nell’Occidente medievale, garanzia di libertà e dignità umana per tutti gli uomini. E cioè: il potere non è un demone senza limiti, perché non può prescindere dal valore della persona.


In un periodo in cui i rapporti fra Stato e Chiesa tornano d’attualità - ma in realtà lo sono sempre, perché lo Stato ha comunque una dimensione religiosa e la Chiesa una dimensione terrena - queste pagine riaprono questioni che non finirono sepolte con Gregorio VII, salvato sì in quel 1084 dall’intervento dei normanni ma, ormai solo e isolato, destinato a morire l’anno successivo nella periferica Salerno, mentre il fiume della storia sembrava aver travolto tutto.

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