Guadagnino è un guardone patinato

Luca Guadagnino va per i cinquanta, un'età in cui di norma lo sguardo sulla vita è quello di una persona adulta.

Guadagnino è un guardone patinato

Luca Guadagnino va per i cinquanta, un'età in cui di norma lo sguardo sulla vita è quello di una persona adulta. Adulta può voler dire giudicante, soprattutto nei confronti di giovani o adolescenti e ciò pare inevitabile e andrebbe evitato. A meno che l'osservatore, volendo cercare più aderenza con i propri soggetti, riesca a fare un passo indietro fino a immedesimarsi in ciò che vede. La domanda a questo punto sorge ovvia: ma questa aderenza è davvero spontanea o c'è invece qualcosa di artefatto, di profondamente innaturale, nel cinquantenne che si attarda sui ragazzini?

La macchina da presa del regista siciliano, sulle cui abilità tecnico-estetiche non mi permetto di discutere, anche se è come affermare che uno scrittore scrive bene (ma cosa vuol dire? È il minimo sindacale che uno sappia utilizzare i propri strumenti di lavoro), osservando i corpi dei teenager interpreti dell'attesa serie We Are Who We Are in onda su Sky, mi provoca il solito sentimento di fastidio che avverto nei confronti del suo cinema. Il voyeurismo dell'uomo adulto quando si sofferma sull'incerta sessualità adolescenziale mette in moto strani meccanismi e non bastano l'eleganza formale né i riferimenti e gli omaggi al maestro Bertolucci, poiché il tocco languido scivola nel perverso e lo sguardo dal buco della serratura si insinua nel porno-gay-soft.

Intendiamoci, non si tratta affatto di un lavoro modesto. Guadagnino è molto bravo a indagare sulla psicologia dei personaggi, ha l'originalità di ambientare la storia, scritta insieme a Paolo Giordano che di adolescenza si è occupato eccome, in una base militare americana a Chioggia, dove vivono i soldati e le loro famiglie in una sorta di microcosmo che fatica a uscire dai propri confini. Anche nella scelta degli attori, Guadagnino ci prende: i due giovani protagonisti 17enni (Jack Dylan Grazer e Jordan Kristine Seamón) recitano in maniera intensa e coinvolta, così come convince la scelta di recuperare Cloë Sevigny che all'inizio degli anni 2000 lavorò con Larry Clark e Vincent Gallo, attrice di culto del cinema underground americano.

E qui cominciano i guai. Era davvero indispensabile che la donna, militare e madre del ragazzino, fosse lesbica convinta? E che scoprissimo omosessuale anche la mamma della sua amica? Non bastavano a Fraser e Catlin le rispettive identità sessuali imprecise, i loro caratteri fragili e disturbati che ci riportano dritto agli eroi del cinema di Gus Van Sant o al misterioso JT Leroy che ballò una sola estate?

Siamo sicuri che gli adolescenti siano così come li restituisce Guadagnino? Confusi, gracili, sessuofili e sballati? È solo questa l'alternativa agli smartphone e ai social? Non vorrei che questo discorso fosse preso per moralista, ma davvero non si capisce perché non esista un altro modo per rappresentare un'età della vita che certamente sarà difficile e acerba, ma non può essere solo e soltanto questo.

L'esordio televisivo di

Guadagnino è intriso dello stesso conformismo di cui era vittima in Chiamami col tuo nome. Se lo guardi con superficialità funziona, appena scavi un po' escono manierismo e banalità che peraltro hanno i loro fan convinti.

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