Ma guarda, i signori degli scoop sono tutti progressisti

E ora, per cortesia, parliamone. Sì parliamo di noi giornalisti, della libertà di opinione, dell’indipendenza delle fonti, di etica. Abbiamo la pretesa di giudicare il mondo. E il mondo lo giudichiamo davvero. Ma talvolta non ci accorgiamo di essere usati, strumentalizzati. E ci capita, ogni tanto, di scambiare lestofanti per eroi, astuti manipolatori per paladini della libertà.
Sia chiaro: non sappiamo cosa ci sia dietro il misterioso mondo di Wikileaks, ma non ci piace il ruolo che un solo uomo, Julien Assange, ha attribuito alla stampa. Anzi, a una certa stampa. In questi giorni è stata varcata una frontiera e sebbene molti commentatori inneggino alla potenza della Rete e alla sconfitta dei poteri (...)
(...) nell’era della società dell’informazione, la realtà appare diversa, più sfumata, grigia, inquietante. George Orwell, probabilmente, non avrebbe approvato quanto sta avvenendo in questi giorni. Sapeva, Orwell, che uno dei requisiti fondamentali della democrazia è rappresentato dalla pluralità delle fonti e, parallelamente, delle testate giornalistiche. Ma da domenica stiamo vivendo una situazione antitetica.
La fonte è una sola e non è per nulla trasparente. Non sappiamo chi sia davvero Julien Assange, né chi lo finanzi, né chi gli abbia passato i file sottratti al Dipartimento di Stato. Ma, soprattutto, non sappiamo con quali criteri abbia deciso di diffondere «solo» 250mila e-mail. Sì, «solo» 250mila: in realtà il padre di Wikileaks ne ha ricevute 2,7 milioni. Sostiene, da tempo, di non poterle vagliare, né valutare. Perché è solo e non è competente; per questo chiede l’aiuto della stampa. Eppure, da solo, è riuscito ad accantonare ben il 90% del materiale in suo possesso. Come ha potuto? Ha tirato a sorte? O qualcuno lo ha aiutato? E chi?
Assange dovrebbe spiegare, ma ovviamente se ne guarda bene. Peraltro, nessuno glielo chiede. Così come nessuno gli chiede conto dei motivi per cui abbia dato l’esclusiva a cinque quotidiani. Trattasi di testate stimate, importanti e autorevoli. Il Guardian fa eccellente giornalismo, il New York Times continua a sfornare Premi Pulitzer, Der Spiegel rappresenta la punta di diamante del giornalismo d’inchiesta tedesco, Le Monde appare molto decaduto, ma ha ancora un certo blasone, ed El País beneficia di una reputazione che supera i confini della Spagna.
Scelta raffinata, non c’è che dire. Eppure singolare. Già, perché tutte e cinque le testate hanno lo stesso orientamento politico: sono di sinistra. Se lo scopo di Assange fosse stato quello di servire in modo oggettivo l’umanità, avrebbe dovuto includere quotidiani di diversa inclinazione, ad esempio una Die Welt o un Daily Telegraph.
Invece ha optato per il pool delle testate progressiste occidentali, che da tempo collaborano tra loro, con una sola esclusione, che in termini assoluti è trascurabile, ma per gli italiani perlomeno curiosa: quella di Repubblica, che quando c’è da intervistare Obama o Cameron viene aggregata, ma che questa volta è stata tenuta in disparte. Caro Ezio Mauro, come mai?
Ai direttori di quelle cinque testate andrebbe chiesto in base a quali criteri abbiano scelto le notizie che hanno sparato ieri in prima pagina e come si sentano nei panni di giudici e, al contempo, di censori del mondo. I filtri, infatti, sono stati due. In cima alla piramide quello di Assange, un gradino sotto quello, il loro. I magnifici cinque, a loro volta, hanno diffuso solo una piccola parte dei 250mila file. Perché?
Mai nella storia dei quotidiani hanno avuto tanto potere. Lo hanno esercitato bene o male? In maniera oggettiva o soggettiva? Non lo sappiamo con certezza, ma non è difficile immaginare che se tra di loro ci fossero stati quotidiani conservatori o comunque non schierati, i criteri sarebbero stati diversi.
El País ad esempio, ieri apriva con i giudizi Usa su Berlusconi e lo spionaggio all’Onu. Eppure aveva una notizia che per gli spagnoli era ben più importante e che qualunque giornalista di razza avrebbe sparato in prima pagina: un’e-mail in cui Zapatero viene descritto come il leader di una sinistra «antiquata, nottambula e romantica». Il giornale l’ha pubblicata con un ritardo di 24 ore. Se il premier fosse stato un conservatore, avrebbe avuto gli stessi riguardi? C’è da dubitarne.
E c’è da interrogarsi su altri dettagli, di cui nessuno si occupa, ma che non sono affatto secondari. Ad esempio: che ne pensa l’America di altri leader italiani oltre a Berlusconi? Possibile che si parli solo del Cavaliere? Su Fini, D’Alema, magari Draghi, proprio niente?
Curiosità legittima, ma destinata a rimanere insoddisfatta, a meno che nei prossimi giorni non saltino fuori altri scoop.

Perché la grande ondata si è già abbattuta, ma il materiale catapultato da Assange è così vasto da permettere rendite pluriennali. A colpi di rivelazioni inattese, che aiutano le vendite e danno potere. Tanto potere. Nelle mani di appena cinque giornali che neutrali, certo, non sono.

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