Guccini: "All’inizio mi dissero: cambi mestiere"

Il cantautore si racconta prima del concerto di martedì al Forum di Milano con il nuovo tour "Quando incisi Auschwitz un tecnico del suono mi sussurrò: Lei mette addosso una tristezza"

Guccini: "All’inizio mi dissero: cambi mestiere"

Milano - «Vi diplomerò in canti e in vino all’alba in via Fabbri 43» prometteva Francesco Guccini decenni fa. E continua a farlo anche oggi, aedo dei nostri tempi tanto legato alle radici contadine quanto aperto al mondo per curiosità intellettuale e culturale. Il Guccini di sempre, spiritaccio portato alla caciara e al vino rosso che al contempo sa pensare alto e sottile, torna sul palco per un tour teatrale (martedì sarà al Forum di Milano all’insegna del tutto esaurito) ancora in giro a raccontare storie tra spleen e sghignazzo, tra poesia, spirito da taverna e anarchia.

Caro Guccini, cos’è l’anarchia?
«È un senso di giustizia, un ideale libertario che non ha colore politico».

Ma lei è stato un simbolo della sinistra.
«Beh, insomma, l’estrema sinistra mi ha spesso attaccato accusandomi di cantare brani troppo morbidi».

Uno che, nella Locomotiva, canta «trionfi la giustizia proletaria»?
«Non scrivo canzoni impegnate o politiche ma esistenziali. Per La locomotiva mi sono ispirato agli antichi canti anarchici di Pietro Gori. Ho le mie idee, ma mi hanno attribuito militanze improbabili».

E del ’68 di cui tanto si parla oggi che ricorda?
«Io avevo già 28 anni. Il mio ’68 l’ho fatto prima, quando ho scritto Auschwitz e Dio è morto».

Di quel periodo Edmondo Berselli scrive: «Mentre ci si cominciava a divertire sul serio con un disco e una chitarra, com’è che misteriosamente cominciano a menartela con la contestazione e Marcuse»?
«È vero, c’erano entrambe le cose. La nuova musica e soprattutto un nuovo rapporto con le ragazze, perché prima non si batteva chiodo con le donne. C’erano anche le occupazioni delle università, ma all’epoca le facevano quelli coi capelli corti in giacca e cravatta. Poi pian piano è cambiato tutto. Anch’io non leggevo Marcuse ma ascoltavo Bob Dylan e leggevo Faulkner, Kerouac, Borges, e ogni tanto frequentavo gli anarchici di Parma tra cui c’era un mio cugino».

Gia poi è arrivato il periodo dell’eskimo.
«Sì ma io lo comprai molti anni prima, finito il militare, in un mercatino di Trieste. Era il capo più caldo ed economico; e così mi trovai in divisa prima del tempo».

Lei ormai è un punto fermo della tradizione folk.
«Sono solo un artigiano della canzone».

E la sua arma sono state le canzoni, per cui è stato definito da Vecchioni un «cantapensiero».
«Tutti i miei brani hanno un fondo autobiografico».

Infatti sono entrate nella leggenda le sue notti alcoliche all’Osteria delle Dame, dove sono nate tante canzoni.
«È lì ci si dava dentro con il vino, anche se non è che io sia proprio un etilista, non mi son mai tirato indietro, anzi. Anche se oggi bevo molto meno. Per noi il vino era poesia, oggi l’acol è sinonimo di stragi del sabato sera. Ma non solo; una volta c’erano le osterie e gli whisky à gogo; oggi le osterie sono sparite, ci sono discoteche o se va bene enoteche che sono boutique del vino. S’è persa la cultura del bere».

E Guccini come resiste a queste trasformazioni?
«Faccio la mia vita di sempre. Se devo provare una nuova canzone la incido su un vecchio walkman».

E ci sono nuove canzoni?
«Sì, ne ho pronte alcune che suono già in concerto, come Canzone di notte n. 4, che stravolge il senso delle tre precedenti. L’anno prossimo o all’inizio del 2010 vorrei fare un nuovo album».

Gli altri si scatenano con duetti e collaborazioni; lei è uno dei pochi che tira diritto da solo.
«Sono pigro, per collaborare bisogna spostarsi, viaggiare, io sto bene nella mia Emilia. Suono per gli amici, magari qualche tango o vecchia ballata sudamericana. Amo molto la musica sudamericana ma non quella brasiliana».

Con L’avvelenata ha massacrato se stesso e i suoi colleghi cantautori cantando «colleghi cantautori eletta schiera che si vende alla sera per un po’ di milioni / voi che siete capaci fate bene ad aver le tasche piene e non solo i coglioni». La pensa ancora così?
«No, è un pezzo nato in un momento particolare e non volevo neppure includerlo nel disco. Oggi non ascolto musica e quindi non giudico».

E la sua attività di scrittore?
«Sto lavorando con Loriano Macchiavelli a un nuovo giallo. Abbiamo mandato in pensione il commissario Santovito e stiamo studiando un altro personaggio».

Lei è un fanatico di gialli.
«Sì, da Nero Wolfe di Rex Stout a Ed McBain, al fascino ormai ottocentesco di Agatha Christie, li amo tutti».

I suoi esordi come cantante non sono stati troppo brillanti.
«Entrai in studio per incidere Auschwitz e c’era un tecnico del suono (allora portavano camici bianchi come i medici) che alla fine mi disse austeramente: “Cambi mestiere o cambi genere, perché così mette addosso una tristezza... ”.

E lei come la prese?
«Credevo in ciò che cantavo, e poi la gioia di essere in sala d’incisione era più forte di tutto».

All’inizio i suoi brani erano un po’ folk e un po’ ballate melodiche sarcastiche come Il bello.
«Sì, giostravo tra le suggestioni di Dylan e il fascino di Brel condito all’emiliana»

Dicono che sia partito in tour perché è molto nervoso da quando ha smesso di fumare.
«È una leggenda metropolitana, non ho affatto smesso di fumare. Vado sul palco perché mi diverto».

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