
Allora è vero, ci siamo sul serio. Tornano gli Internazionali d’Italia. Roma si veste di rosso, si tende, si prepara. Si allestiscono gli spalti, i campi profumano di nuovo, le file per i biglietti già si allungano fuori dal Foro. Ma, ogni volta che si riaccendono i riflettori sul Centrale, c’è un ricordo seduto in prima fila che resta piuttosto ingombrante. Una partita che non se n’è mai andata. La più bella alla quale abbiano mai assistito, da queste parti. È il 2006, finale Federer contro Nadal. Il tennis regale dello svizzero contro quello brutale del maiorchino. Roma si ferma, trattiene il respiro. Due semidivinità ancora all'alba delle rispettive carriere, nel fulcro delle rispettive energie.
Il Centrale del Foro Italico si stringe attorno a due volti che non si cercano, ma che già conoscono approfonditamente le pieghe l'uno dell'altro. Nadal ha i muscoli tesi, l’occhio basso di chi resta concentrato, senza concedere alibi all'emotività. Federer sfila sul campo come un chirurgo: passi smisurati, sguardi geometrici. La finale è qui. Il tempo si annulla.
Il primo set lo decide un lampo: Federer prende il centro, varia, taglia, inventa. Il tie-break è una lezione di glacialità: 7-0, Nadal non ci capisce niente. Ma il talento di Maiorca ha un cuore metallico, impenetrabile. Non avverte scosse. Ad ogni punto perso risponde con una rincorsa in più, un colpo carico di fango e volontà. Il secondo set è più stretto, più viscerale. Si entra in apnea. Il tie-break lo prende Rafa, che urla e stringe il pugno come se il Foro gli appartenesse già.
Federer capisce che non basta l'estetica, serve il dolore. Prova a resistere, ma Nadal lo infila con lo spin, lo costringe agli angoli, gli rammenta la sua mortalità. 6-4 nel terzo, Roma esplode. Ma lo svizzero non è venuto per applaudire il suo avversario. Nel quarto impenna il suo livello. Il rovescio suona come un violino, il servizio tiene, i vincenti piovono. 6-2, e siamo 2-2. Il quinto set non è una partita: è un romanzo di formazione.
Federer va 4-1. Sembra fatta. Nadal sbaglia, sbuffa, scivola. Pare appannato, ma tiene. Torna. Si rifà sotto punto dopo punto, come se stesse scavando con le mani per riemergere dalla fossa tennistica in cui lo svizzero intendeva gettarlo. Roger però ha due match point. Due palle che potrebbero chiudere tutto. Le sbaglia. Nadal ringrazia tutti i santi iberici e lo aggredisce. Fino allo strappo, al tie-break. Fino al 7-5 che determina il suo successo. Il maiorchino adesso crolla a terra, sfinito e felice.
Quello che succede dopo conta relativamente. La coppa sollevata, le foto, gli applausi. Per il campione spagnolo non si tratta soltanto di una vittoria. È un patto scritto nel sangue della terra rossa, che diventerà il suo giardino di casa. Da quel giorno nessuno lo scruterà più come una promessa: è un’ossessione per chi gli sta davanti, una condanna per chi prova ad inseguirlo. Federer non perde veramente. Piuttosto, inizia da quel giorno a costruire una leggenda inimmaginabile, custodita seminalmente nella sconfitta più bella della sua carriera.
Il pubblico capisce. Si alza. Batte le mani per entrambi. Non serve tifare, basta esserci. Non si è mai trattato di una partita di tennis. È stato un atto di teatro, uno scontro tra filosofie agli antipodi. Federer è Bach, Nadal flamenco puro.
Due modi distanti di interpretare la vita e il tennis. Ancora oggi, è la partita più estatica che il Foro abbia mai visto. Una finale che non finisce. Perché quando due così si prendono a colpi, il risultato è solo l’ultima delle questioni.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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