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La guerra alle mafie ora si fa sui soldi Sequestrati 12 miliardi

MilanoBeni per sessanta milioni sequestrati, l’altro ieri, ai padrini della ’ndrangheta in Lombardia. Dieci volte di più, in aprile, ai boss casalesi della camorra. Addirittura un miliardo, tre giorni fa, ancora ai casalesi, quelli che si erano impadroniti di un intero lago. E poi un martellamento di confische e di sequestri per importi minori, ma quasi sempre superiori al milione di euro, talmente frequenti che i giornali non ne parlano neanche più. E che però, una dopo l’altra, contribuiscono a fare salire a livelli astronomici il totale dei beni passati dalle mani dei clan organizzati a quelle dello Stato. Ma, paradossalmente, l’impennata delle requisizioni (il 167 per cento in più di sequestri, il 352 per cento di confische) rende sempre più complesso il problema della conservazione e dell’utilizzo di questa massa impressionante di beni.
Gli ultimi dati disponibili arrivano fino alla fine dello scorso mese di giugno: tra beni confiscati e sequestrati (la differenza è che i primi sono ormai definitivamente dello Stato, mentre la sorte degli altri dipende dall’esito dei processi) in due anni le organizzazioni criminali si sono viste soffiare beni per 12 miliardi di euro. Una mezza manovra finanziaria. È esattamente quello che da anni le magistrature antimafia di tutta Italia: la necessità di colpire i clan nel portafoglio, negli interessi materiali, prosciugare la forza economica che spesso è più micidiale della forza militare. Anche se il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Beppe Pisanu, sostiene che il business delle cosche non è stato scalfito, «perché ogni anno i clan fatturano tra i 120 e i 140 miliardi», è difficile immaginare che salassi di questa entità restino senza conseguenze: soprattutto quando si tratta di colpi a otto zeri, come i beni per 550 milioni in una botta sola che nel gennaio scorso vennero portati via all’imprenditore agrigentino Rosario Cascio, considerato il prestanome del latitante numero uno di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. Sono operazioni così che fanno esultare il ministro Maroni che ora dice: «Non è finita, andremo avanti».
Ma se «botti» come quello a carico dei casalesi o del prestanome di don Matteo fanno impressione, a rimpolpare il carniere è soprattutto lo stillicidio di confische che praticamente ogni settimana vengono messe a segno. Un giorno venti milioni a Reggio Calabria al clan Alvaro. Un altro centocinquanta alla famiglia Brancaccio a Palermo. Un altro ancora, venti milioni a un solo imprenditore catanese, Alfio Giuseppe Castro, accusato di lavorare per i clan di Barcellona Pozzo di Gotto. E, in marzo, a Roma, ottanta milioni a una mafia tutta nuova: quella cinese.
Nella mappa delle confische di aziende, la classifica è stabile da anni. Al primo posto la Sicilia, al secondo la Campania, al terzo la Lombardia che si conferma - dal punto di vista della penetrazione criminale - in condizioni drammaticamente simili a quelle che venivano chiamate le «regioni dell’Antistato»: ci sono 164 aziende lombarde, dicono i dati dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati, che erano espressione diretta da capitali mafiosi. Che fine fanno, le imprese tolte ai boss? Mandare avanti una azienda è difficile. Spesso, impossibile. Così i beni delle aziende sotto confisca rischiano di restare a lungo in stato di abbandono. Ma esiste, fortunatamente, un’altra passione dei boss: quella per il mattone e per la terra. E quando a finire sotto sequestro sono terreni e palazzi, la conversione in bene socialmente utile è decisamente più agevole.

A Tavernelle Val di Pesa, un paese in provincia di Firenze, quattro famiglie senza casa andranno a vivere negli appartamenti confiscati a un narcotrafficante condannato dal tribunale di Milano. E a Rosarno gli immigrati africani presi a bastonate dai manovali della ’ndrangheta oggi lavorano per le cooperative che hanno avuto in gestione i terreni sequestrati ai clan.

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