La guerra civile della bambina Alfa

Un libro su una vicenda drammatica, dimenticata dalla grande storia. Una "spia" fascista viene giustiziata dai partigiani. E la figlia, diventata adulta, ne vendica la morte

La guerra civile della bambina Alfa

Nelle linee essenziali, la vicenda raccontata da Domizia Carafòli nel suo ultimo bel libro (La bambina e il partigiano, editore Mursia) è semplice e straziante. A Crevacuore, paese della bassa Valsèssera distante una quindicina di chilometri da Biella, due uomini armati bussano il 15 luglio 1944 - dunque in piena «guerra civile» - alla casa di Margherita Ricciotti coniugata Giubelli. Vogliono che la donna li accompagni «al comando». I due sono partigiani della formazione di Aurelio Bussi (nome di battaglia «Palmo»), un comunista duro e all’occorrenza spietato. Margherita appartiene a un clan familiare noto per i suoi sentimenti fascisti. Il marito è andato in guerra, lei non sa nemmeno dove si trovi. Ha accanto a sé la figlia Alfa di dieci anni: una ragazzina dai grandi occhi scuri e profondi, fortemente e quasi morbosamente attaccata alla mamma.

Margherita è impaurita dall’atteggiamento di quei due, certo Ardissone e certo Balosetti, che le fanno fretta. In realtà non avevano nessuna voglia di assolvere quell’incarico truce, ma «Palmo» li aveva spronati. «È una spia. Tutti i Ricciotti sono spie. Le spie fasciste devono essere eliminate. Tutte. È l’ordine arrivato dal comando di Gemisto (Francesco Moranino ndr). L’hanno portato Jimmy e William, gli inglesi». Ma c’era un intoppo, Margherita voleva prendere con sé la bambina «Se mi dovete solo interrogare... E poi non so a chi lasciarla». Si avviarono non verso il «comando» ma verso il cimitero, dove con altri partigiani era in attesa «Palmo» in persona. Nessun interrogatorio, solo una sentenza di morte, una «raffichetta» di mitra, mentre Alfa si divincolava terrorizzata. Poi una voce che chiede: «E adesso che ne facciamo di questa?». Un altro commenta «beh, è una testimone», ma viene rimbeccato. «T’ses fol, sei matto?». La bambina si salva. Il 15 giugno 1953 il procuratore della Repubblica di Vercelli, Lombardi, stabilisce che Aurelio Bussi non ha commesso un reato perché s’è trattato di un’azione di guerra. In conformità il giudice istruttore Rosco archivia il fascicolo.

Ma Alfa no, non l’aveva archiviato. Era andata sposa, a 15 anni, a un bravissimo uomo, Rino Basadonna, suo cugino di secondo grado ed ex marò della Decima mas, che non l’abbandonerà mai più. Era malinconica, strana. Martedì 7 marzo del 1956 Alfa prese da un cassetto la pistola del marito e salì sulla corriera per Crevacuore: dove il Bussi, fregiato d’una medaglia d’oro per gli atti di valore compiuti nella Resistenza, era sindaco comunista. Personalmente onesto, fermo nella convinzione che il sistema sovietico dovesse rappresentare per i popoli la meta suprema. Riuscì a rintracciarlo mentre era a tavola nella casa di Rina Petrolini, la sua compagna da una decina d’anni. Solo poche parole «sono Alfa Giubelli, la figlia di Margherita Ricciotti». E il grilletto premuto convulsamente. Un breve tragitto alla caserma dei carabinieri, per consegnarsi, il carcere, il processo, la condanna a cinque anni e tre mesi di reclusione, con il riconoscimento del vizio parziale di mente.

Una tragedia terribile, ma a lieto fine se una tragedia può esserlo. Perché Alfa Giubelli fu guarita, nello spirito e nel corpo, dal suo gesto sanguinario. Ebbe due bambine. Domizia Carafòli è riuscita a rintracciarla. «Mi sentivo profondamente imbarazzata... Poi finalmente mi decisi e la chiamai. Di là suonarono pochi squilli, prima che qualcuno alzasse la cornetta. Rispose una voce femminile, chiara, forte. “Sì sono io. Sono Alfa Giubelli”».

Il merito della Carafòli sta nell’avere rievocato quella vendetta d’una bambina diventata donna con commozione partecipe ma senza scadere nel patetico. E d’avere inoltre tratteggiato con sapienza narrativa, attorno al caso Giubelli, quello che con termine in gran voga viene adesso definito il contesto. Ossia lo scatenarsi di pulsioni feroci che una guerra civile sempre determina, e che porta in superficie tipi umani cui quell’atmosfera di morte si addice particolarmente. Sono, dall’una e dall’altra parte, i fanatici, gli esecutori delle più turpi incombenze. Gli ammazzamenti reciproci sono il loro habitat. Fermo restando che tra questi personaggi vi sono volgari carnefici e idealisti purissimi, coloro che vanno cercando libertà e coloro che vanno cercando sfogo all’odio.

Essendo dalla parte dei vincitori, non da quella dei vinti, Aurelio Bussi aveva avuto una medaglia d’oro anche se l’avere abbattuto Margherita Ricciotti, presente Alfa, non era stato un granché come atto di valore. Del resto il gran capo dei partigiani della zona, Francesco Moranino, fu difeso a spada tratta dal Pci anche quando s’era accertato, ad di là d’ogni dubbio, che aveva fatto sterminare alcuni appartenenti a formazioni partigiane indipendenti, e per di più le mogli di due di loro. «Atti di guerra».

Il processo di Vercelli aveva scatenato l’inevitabile polemica tra i duri e puri dell’antifascismo che tributavano al defunto «Palmo» incondizionate attestazioni di fede democratica, e i «revisionisti», inclini a collocarlo tra gli esemplari umani che la guerra civile produce, ma che in tempi di normalità è meglio tenere in disparte.

Il periodico dell’Anpi Baita volle dare dei Ricciotti un quadro fosco: «Non ci è stato detto che (Margherita, la madre di Alfa, ndr) era una spia fascista, che fece imprigionare, perseguitare, ammazzare tanti antifascisti, tanti partigiani; non ci è stato detto che la nonna manganellò e distribuì olio di ricino a decine di lavoratori durante il fascismo; non ci è stato detto che anche il fratello era un brigatista nero; non ci è stato detto che lei si incontrava spesso con elementi neofascisti di Borgomanero». E qui il dramma scade nel grottesco oppure si colora di surrealismo. La nonna manganellatrice: quelli della Baita avevano davvero un tocco alla Jonesco.

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