La guerra civile ridotta a una farsa

Disastrosa la fiction su Carmine Crocco, ribelle anti-Savoia: sembra una telenovela, fraintende la storia ed è inverosimile

La guerra civile ridotta a una farsa

Immaginatevi un brigante - ovvero un contadino meridionale del 1863 - impegnato a combattere contro l’esercito «piemontese». Vive sui monti, beve acqua di ruscello, mangia quel che riesce a razziare, dorme in caverne o in capanne di frasche; si lava, quando va bene, ogni qualche settimana. Lo stesso, le loro donne, le brigantesse, impegnate più a combattere e a morire che a cucinare per i loro uomini.
Ebbene, come ve li siete immaginati? Sporchi, laceri, inselvatichiti dagli stenti, dalle malattie, dall’abbrutimento della vita nei boschi, graveolenti, tracagnotti com’era un meridionale di allora, almeno dieci centimetri più basso della media di oggi? Errore: essi erano alti e snelli come vichinghi, avevano abiti lindi e sgargianti da pubblicità di un detersivo capace di ben proteggere i colori anche nella centrifuga, unghie linde e tanto curate da fare invidia a un ginecologo, le donne non trascuravano il tratto di rimmel e i briganti più importanti non si negavano neppure le méches su capigliature setose e ondivaganti.
Se non ci credete, siete poco informati, ovvero non avete visto - ieri e l’altro ieri - Il generale dei briganti, sceneggiato televisivo in due puntate sulla vita e le imprese di Carmine Crocco, trasmesso da Rai Uno e presentato come l’evento finale, in televisione, delle celebrazioni per i 150 d'Italia.

Si badi bene, l’aspetto - da telenovela o da fotoromanzo anni Cinquanta - che avevano gli attori, non è il peggio che si possa dire del programma. Né il peggio sono i salti temporali senza senso e logica (neppure quella di servire la narrazione), i colpi di scena da fogliettone balzacchiano senza Balzac, come la mai avvenuta fuga di Crocco da un plotone di esecuzione, e neppure la banalità dei personaggi stereotipati: il padrone cattivo, il figlio del padrone cattivo e stronzo, il re fesso, e tutti i meridionali - anche i lucani protagonisti della storia - che parlano in un vago napoletano, con venature di siciliano.

No, il peggio è che si è persa un’occasione per diffondere almeno un accenno di verità storica. Ma come? L’aspetto più importante, dal punto di vista storiografico, del 150° anniversario, è che molti storici e saggisti si sono messi d’impegno per togliere il velo, anzi il sudario, di retorica patriottarda (non patriottica) al Risorgimento, per restituircelo intero, non meno importante perché realistico e oggettivo. La scoperta più notevole portata a chi legge è che fra il 1860 e il 1865, in tutto il centrosud peninsulare, si combatté una vera guerra civile. Una guerra civile fra meridionali ribelli all’Unità e esercito nazionale, ovvero - così veniva chiamato - «piemontese». Come tutte le guerre civili fu crudelissima, con più caduti fra i militari che nelle tre guerre d’indipendenza messe insieme, e almeno centomila morti fra i meridionali, un’ecatombe. Fu una guerra dovuta a promesse non rispettata (quella di Garibaldi di dare terre ai contadini) e alla ribellione di chi poteva rinunciare alla libertà, ma non alle proprie tradizioni, per assumere quelle del vincitore.

Ebbene, di tutto ciò, del succo della storia, c’è poca traccia nel Generale dei briganti.

Il popolo televisivo - bue presunto, di certo cornuto e mazziato - viene colpevolmente informato con degli abusati clichès: i terroni, si sa, sono rozzi ma anche passionali e le origini del brigantaggio furono qualche aggressione sessuale, qualche prepotenza di signorotto, la reazione di qualche guappo più guappo degli altri. Come Carmine Crocco, biondino mechato e guappo buono che, oggi, darebbe la caccia ai produttori del film a lui dedicato. E non avrebbe torto.

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