Politica

La guerra dei clandestini

Se uno Stato estero invadesse il nostro territorio con le sue forze armate commetterebbe un illecito, ma per reprimerlo non ci rivolgeremmo ai procuratori della Repubblica: faremmo affidamento sul ministro della Difesa, che fa parte dell’esecutivo, non dell’ordine giudiziario.
L’invasione dei clandestini non è una guerra tradizionale: molti di loro ci sono utili e la gran maggioranza non ci è ostile; ma, se trattiamo quella violazione dei nostri confini come un insieme di piccoli reati non ne verremo a capo. Individuale essendo la violazione della norma, individuale dovrebb’essere la condanna, previo un dibattimento che rispetti i diritti della difesa. Allora i magistrati avrebbero tutte le ragioni per protestare di essere in pochi e di non avere mezzi bastanti.
Malauguratamente la guerra ha cambiato volto: non solo non viene mai dichiarata, ma spesso non è più condotta da eserciti previsti dalle convenzioni di Ginevra. E, dietro ai clandestini, c’è chi muove un nuovo tipo di guerra, anomala e non dichiarata. Contro di noi e contro tutta l’Europa. Smettiamo, inoltre, di considerare i clandestini come poveracci che fuggono la miseria, visto che pagano il viaggio più caro di un passaggio aereo in classe turistica. I nostri poveracci non potrebbero permetterselo.
Quando i clandestini sono così numerosi, la competenza non è più dei poliziotti e dei magistrati, bensì dell’esecutivo. C’è una guardia costiera e una guardia alla frontiera (per non parlare della guardia di finanza), alle dipendenze dei rispettivi ministri, e questi devono provvedere, senza violare i diritti della persona, ma senza trascurare nessun mezzo per far rispettare l’ordine pubblico. Provideant consules, dicevano i romani, «a che la repubblica non soffra danno». Zapatero su altri punti avrà torto, ma su questo ha cominciato a veder giusto.
La frontiera più estesa dell’Italia è la marittima, e con i mezzi d’oggi (radar e macchine da presa ad altissima risoluzione) è possibile sorvegliarla. Le imbarcazioni dovrebbero essere riconosciute, e spesso lo sono, molto prima che entrino nelle acque territoriali. Simulare «incidenti» che, una volta conosciuti dagli aspiranti clandestini, li distolgano dal loro progetto sarebbe criminale; ma esercitare quei controlli che in guerra - e a volte anche in pace - la Marina militare ha il diritto di esercitare servirebbe ad ammorbidire la situazione. È vero che gli scafisti usano i passeggeri come scudi umani, ma a un certo punto devono liberarsene; e, anche se ne tengono uno o due a bordo, gli elicotteri li possono raggiungere.
Un’attenzione particolare va rivolta alle imbarcazioni. Vedo da un trattato che «per l’ammissione alla navigazione è necessaria una licenza, sia per le navi, sia per i galleggianti»: fermata l’imbarcazione, si dovrà cercar di appurare chi avrebbe rilasciato tale licenza. Gli scafisti probabilmente non lo diranno, e con ciò mostreranno di aver violato la legislazione vigente. A questo punto non è tollerabile che con le loro minacce (come accadde anni fa in Albania) ricattino le pubbliche autorità.
In quell’occasione emisi un parere che al ministro Gasparri fece dire: «Se lo avessi emesso io mi metterebbero in prigione». Ebbene, a costo di esser messo in prigione torno a formularlo. Se, nel diritto di navigazione, vogliamo trovare un precedente sul modo di trattare gli scafisti, dobbiamo cercarlo nel modo tradizionale di trattare i pirati. Un trattamento in cui si distinse particolarmente Pompeo Magno. Frattanto, poiché l’immigrazione clandestina si appoggia ad organizzazioni internazionali mafiose, si può cominciare con l’applicare il vecchio codice Rocco (art. 270): «Chiunque partecipi ad associazioni aventi per fine la soppressione di ogni ordinamento politico e giuridico della società è punito con la reclusione da 5 a 27 anni». Per cominciare può essere sufficiente; purché nella reclusione (art.

23), in luogo di «lavoro all’aperto» compaia la formula «lavori forzati».

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