Guerra e tanta iella nel crudo «Flandres»

Ieri al Festival di Cannes la globalizzazione è stata raccontata in lungo e in largo: da Babel di Inàrritu, in chiave di molteplici disgrazie personali, riflesso degli attriti politici mondiali; da Flandres («Fiandre») di Bruno Dumont, con attenzione per le conseguenze della operazioni militari su chi deve parteciparvi. Con L’umanità Dumont aveva vinto il Gran premio della giuria e due premi d’interpretazione nel 1999; poi aveva partecipato alla Mostra di Venezia con Twentynine Palms (2003). Dumont ama mescolare disattamento e accoppiamento, campagna e deserto, con esiti o volontariamente sconcertanti o involontariamente comici. In Flandres il regista immagina che la Francia partecipi a una guerra neocoloniale, tipo quella dell’Irak (altrove in effetti lo fa). I coscritti del film sono contadini, passati dal trattore al mitragliatore, addestrati male e inseriti in esigue compagnie, che - per sopravvivere - possono solo imporre il terrore.

I soldati uccidono e stuprano, prima di venir evirati e uccisi; salvo uno, che tornerà nelle Fiandre francesi e amerà la fidanzata di un commilitone, morto accanto a lui.
La parte bellica di Flandres ha una credibile ferocia, ma prima c’è una bucolica e squallida sensualità protratta per una mezz’ora che pare un’ora e mezza.

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