Comprende due volumi di 1600 pagine ciascuno il «Meridiano» Mondadori dedicato ad Antonio Tabucchi (euro 140, ma 105 su Amazon). Curata da Paolo Mauri, vecchia colonna delle pagine culturali di Repubblica nonché caro amico dello scrittore scomparso nel 2012, l'opera - che raccoglie quasi tutto ciò che il Tabucchi «pubblico» ha scritto (ad esclusione, dunque, sia del Tabucchi «privato» che di quello più strettamente accademico) - ci si offre nel segno delle parole affettuose di un amico che ne condivise passioni politiche e valori estetici.
Il testo di Mauri è bello perché appassionato, partigiano, parziale ma anche schietto, e tutto in difesa dell'amico. Può infastidire a una prima lettura per la mancanza di un vero approccio critico, per la mancanza di un vero studio scientifico, magari a opera di un italianista di vaglio (ma, a proposito: esiste ancora un'italianistica capace di mettere un piede fuori dal bunker accademico?), ma poi conquista per la conoscenza minuziosa, segno di una frequentazione che fu di libri e di serate, e, in definitiva, per l'amore che lo pervade.
Su Tabucchi, che ho letto molto negli anni, talora appassionatamente, talora con insofferenza, sui suoi totem dichiarati (Pessoa in primis, o forse sarebbe meglio dire il suo Pessoa) e non dichiarati, non sarebbe giusto un bilancio da parte mia, che ebbi una parte di rilievo - perfino la cronologia mi cita, con sufficiente precisione (Tomo 1, pag. LXXVII) - in una delle polemiche più feroci al suo riguardo, quella su Sostiene Pereira, il suo romanzo più famoso che proprio su queste colonne nel 1994 stroncai senza appello.
Val più la pena ripercorrere quella vecchia storia.
Avevo 38 anni e diversi libri molto premiati al mio attivo. Erano tempi assai diversi da quelli presenti e io avevo un'altra età. La stroncatura era un genere letterario di moda, io stesso ne avevo subite alcune (Guglielmi, Paccagnini) e volli esercitarmi su un mostro sacro come Tabucchi. Se devi stroncare qualcuno, fallo alla grande.
Sostiene Pereira è tutt'alto che un brutto romanzo, ma io lo considerai un romanzo a tesi, predefinito, senza nessun tremore, senza nessun dubbio, senza precipizi di nessuna specie. E scrissi di conseguenza, con rabbia.
Ora, non si deve giudicare un libro per quello che non dice, ma solo per quello che dice, per ciò che lo scrittore ha scelto di dire: e questo fu il mio primo errore. Il secondo errore, oggi di gran moda (ma resta un errore), fu quello di recensire - io, narratore italiano - un altro narratore italiano. O fai il critico militante, o fai lo scrittore. Occorre fare qualche rinuncia.
In quella circostanza imparai immediatamente alcune cose. La prima, detta papale papale, fu che non si deve colpire qualcuno che è più forte di te. Scrittore più prestigioso, fine intellettuale, accademico di fama, guru della sinistra. Fu come lanciarmi con un motoscafo contro una corazzata.
Tabucchi reagì con veemenza, mi insultò via radio e sulle colonne del Corriere. Comparvero vignette divertenti (su Repubblica) e difese di fuoco un po' dovunque: qualcuno giunse a dire che avevo attaccato Sostiene Pereira perché, in quanto cattolico, volevo difendere il concordato tra la Chiesa e il regime fascista di Salazar (durante il quale si svolgono le vicende narrate nel romanzo). Un mio libro di racconti ricevette un paio di stroncature malevole e disoneste prima di vincere diversi premi.
La seconda cosa che imparai, poiché nessun intellettuale mio amico intervenne pubblicamente in mia difesa, fu questa: che il fatto di essere il più debole dei due non comportava ipso facto che avessi anche ragione. Infatti non avevo ragione.
In una stazione dei treni, nel dicembre 1994, incontrai Goffredo Fofi, che a quel tempo preferiva me a Tabucchi. Ascoltò le mie rimostranze, perché pensavo di essere stato trattato male «dalla cultura italiana» (così, in generale), poi mi disse di avere incontrato Tabucchi e di averlo visto molto triste.
A quel punto mi fu chiaro che avevo sbagliato: potevo pensare di Sostiene Pereira quello che volevo, ma le parole si devono usare per «dire» qualcosa, mai per «fare del male» a qualcuno. Così scrissi una lettera a Tabucchi, che la ricevette il giorno di Sant'Antonio, cosa che non dovette essere per lui senza significato, visto che prese il telefono, mi chiamò e proprio questo riferimento al suo onomastico fu la prima cosa che fece.
Ci demmo appuntamento per la settimana successiva alla libreria Feltrinelli di via Manzoni, dove Tabucchi presentava, non molto benevolmente, il libro di uno scrittore mio coetaneo. Alla fine della presentazione si alzò, venne da me, ci stringemmo la mano senza dire nulla, poi lui mi fece segno di seguirlo. Da un piccolo frigorifero tolse una bottiglia di champagne, la stappò e brindammo. Fu un atto pubblico, simbolico. La rappacificazione tra due scrittori non può essere un fatto privato. Di quell'istante ricordo un particolare non da poco: la temperatura dello champagne era perfetta.
Fu un vero atto di pace, senza richieste di risarcimento, senza bisogno di cambiare idea, da una parte e dall'altra. Non ci siamo più incontrati.
In seguito, mi è accaduto di sentire sul conto di Tabucchi tante cose. Lo scrittore aveva, come dice Mauri, amici e nemici, un privilegio non per tutti. Le sue ultime opere sono sempre meno brillanti ma sempre più drammatiche: ancora una volta ha ragione Mauri quando identifica il tema della morte come uno dei più peculiari dello scrittore toscano.
Oggi ho sessantadue anni e gli eccessi di quella stagione mi sono estranei. Si esce da una bolla di Tempo e si entra in un'altra. Ciò che chiamiamo identità è, probabilmente, qualcosa che slitta, si sposta continuamente, apre e chiude porte, stanze: nessuno è uguale a sé, ciascuno è «altro» a sé. Anche per questo non sta bene riaprire una stagione chiusa.
Nato nel 1943, Tabucchi appartiene a una generazione di mezzo, non più novecentesca e non ancora postmoderna: una generazione esigua, che ha dovuto fare i conti con molti input estetici spesso contraddittori. In Tabucchi si scorgono, a seconda delle date dei suoi libri, influssi diversi. Credo che la letteratura (che egli trovò nella letteratura, come Borges) sia stata per lui una necessità vera, la risposta a un bisogno laico (ma anche religioso, forse) di raccoglimento, di recupero di sé. Un uomo scrive, come disse Pirandello - che Tabucchi amava - per trovarsi.
Poi, il più delle volte, non ci riesce (non ci riuscì nemmeno il più grande di tutti, Tolstoj): resta però la traccia che ha lasciato, ed è ripercorrendo quella traccia che, piano piano, chi viene dopo può ricostruire quello che fu il suo volto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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