Una doppia, pericolosa, frattura sta squassando le forze della sinistra in campo politico e in campo sindacale. È scoppiata di nuovo la battaglia tra gli «inclusivi» e gli «irresponsabili». Di qui il Partito democratico e ciò che resta del sindacalismo istituzionalizzato. Di là la sinistra «annozero», come l’ha definita ieri il nostro direttore: il dipietrismo, i cocci della sinistra radicale e il sindacalismo cosiddetto «di base». È il doppio binario di un movimento di divaricazione che avviene in contemporanea. La dinamica è la medesima. In campo politico, anzitutto, le difficoltà enormi in cui versa il Pd hanno instillato nel centrosinistra una convinzione di minoritarismo che diventa coazione all’eutanasia, un processo pubblico di continua autocoscienza dove si passa più tempo a litigare sugli errori del passato che a individuare ipotesi di strategia per il futuro.
L’uscita di libri come Flop di Giuseppe Salvaggiulo (Aliberti Castelvecchi) o Lost Pd (Sperling&Kupfer) di Marco Damilano, analisi avare di ragionamenti di prospettiva, la dice lunga sul piano inclinato su cui sta rotolando il dibattito a sinistra, tra sondaggi inquietanti e una devastante smobilitazione della base. Dalla vocazione maggioritaria alla vocazione rinunciataria, non si trova nemmeno a Repubblica qualcuno disposto a scrivere, come fece qualche mese fa Ilvo Diamanti, che Franceschini è l’uomo giusto per il rilancio del Pd.
I democrat sono accusati di tutto e del suo contrario: di non fare l’opposizione o di farla troppo e male, di essere un partito di oligarchi o di eterni indecisi, di soffrire di carenza o eccesso di classe dirigente. Accanto a questo rattrappimento del linguaggio, della capacità politica e di leadership del Pd, il partito personale di Antonio Di Pietro ha sviluppato un’estetica, più che una politica, che piace al popolo girotondino, agli operai delusi e piace anche alla gente che piace, il gruppetto di intellettuali arrivati a dar sostegno a ciò che si ritiene l’ultimo avamposto dell’antiberlusconismo, il chilometro Tamil che ancora non cede, il Piave dell’opposizione radicale. Più il Pd arretra, più l’atmosfera nel campo politico del centrosinistra s’inquina, il linguaggio del conflitto acquista terreno e Di Pietro allarga i consensi, considerando che la sinistra radicale, con tutto ciò che esprime in termini di rappresentanza sociale e politica, sta fuori dal Parlamento e (ma questo non è un bene) è anche priva di ciò che Giovanni Sartori definirebbe «diritto di tribuna». Gli estremisti vivono un sonno agitato.
Il medesimo processo di divaricazione si sta affermando nel campo sindacale. Agli stessi sindacati viene rimproverato di essere troppo morbidi verso governo e sindacati, di non contrastare la politica della moderazione salariale, di appoggiare la riforma brunettiana della pubblica amministrazione, di subire la crisi occupazionale, o al contrario di essere manutentori dei privilegi di pochi insider senza riguardo per disoccupati e giovani. La Cgil, poi, ha deciso di emarginarsi decidendo di non partecipare al processo di riforma dei contratti. È naturale che, in questo scenario di contestazione che stritola il sindacato, si moltiplichino le finestre di opportunità per chi, come i dipietristi nel campo politico, predica una forma irresponsabile di opposizione. Gli anglosassoni lo definiscono «overpromising»: così come in campo politico i partiti antisistema possono promettere qualunque cosa, perché sanno che non andranno mai al governo, in campo sindacale i vari Cobas possono assicurare lotta dura senza paura e salari garantiti perché sanno che mai dovranno sedersi a qualche tavolo dove discutere seriamente di riforme o tutela dei redditi, assumendosene onori e oneri.
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