Se ci fossimo ancorati al vecchio dettame del Materialismo Storico che, nel procedere della Storia, fa dialogare la «Struttura» (economia) con la «Sovrastruttura» (ciò che è fuori dall'economia) per decidere che le guerre, «in ultima analisi», scoppiano per questioni economiche, non avremmo scritto nessun grande romanzo sulla guerra. E se è certo che le guerre - dalle Puniche alle odierne - sono veicolate da interessi di potere e dunque economico-politici, è comunque sacrosanto ammettere che per ragioni «umane, troppo umane», o umano-divine, l'uomo pare scatenare la guerra per poi cantarne il dramma e la tragedia. Come se il famoso inconscio collettivo di Jung emergesse in una esplosione. Del resto è lo stesso psicoanalista che, analizzando l'inconscio tedesco, nomina il dio della guerra Wotan che, ogni tot anni, si risveglia dal suo letargo e incomincia a smaniare.
Il libro dei libri sull'argomento, sappiamo che lo ha scritto Omero e si intitola Iliade: la guerra che si combatté fra i troiani e Ilio, la città ubicata sullo Stretto dei Dardanelli meglio conosciuta col nome di Troia. Un poema epico: dunque forte delle leggende, della gloria, delle gesta, dei conflitti, dell'onore che riguardano personaggi eroici che mal volentieri parlano di soldi. Addirittura a principio di contesa c'è l'amore tra Elena e Paride che la strappa a Menelao fratello di Agamennone. Zero economia. Eppure anche se l'Iliade procede non per narrazione ma per blocchi «scenici», per dialoghi che simulano azioni guerresche, il poema trasuda di tragedia umana, di drammi e conflitti tra l'uomo e le divinità. Ogni corpo a corpo (dal memorabile tra Achille e Ettore all'interno dell'Ira di Achille) è pregno di investitura suprema. Ogni dettaglio o indizio è saturo di una umanità sconcertante. Il pianto di Priamo inginocchiatosi sempre ai piedi del Re dei Mirmidoni. E egli, così superbo e divino, si commuove e rende al padre le spoglie del figlio che ormai non è più un nemico (se lo è stato) bensì un fratello, un povero figlio morto che va onorato e seppellito come civiltà pretende. Non dico altro di fronte a questo Romanzo dell'onore perduto.
Il De bello gallico fu risoluzione di guerra e rivelazione per la posterità del guerriero più astuto, vittorioso e lungimirante del passato: Giulio Cesare. Forse pari al solo Annibale che, fermatosi sul Trasimeno in attesa (è la mia tesi) di essere chiamato come figlio dalla Patria-Roma, egli che in Cartagine non rinveniva una Patria ma una oligarchia economica, sarà l'ultimo eroe votato alla sconfitta del mondo antico.
Ne l'Orlando furioso e nella Gerusalemme liberata il fondale è la guerra tra cristiani e mussulmani con risultati genialmente opposti. Nel Furioso il sangue è acrilico e le manovre dei cavalli e la descrizione dei cannoni, fra tutti l'esemplare ancora visibile attorno al Castello di Ferrara, si intrecciano soprattutto fra duelli d'amore e rotte irreali. La guerra è il materasso della fantasia. Dormendo su di essa l'immaginazione prospera. Dove Ariosto è congegno mentale e plastico fantasioso seppure inquieto, il Tasso affresca di guerra l'interiorità. Anzi, la sua guerra è nelle viscere. Lo attestano le lettere inviate al Cardinale Silvio Antoniano che gli puntualizza circa quegli amori tra cavalieri cristiani e belle arabe, quale la maga Armida. Tasso si fustiga pur sapendo che gli amori, per usare un eufemismo, si praticarono a decine e decine di migliaia. Ora mi torna a galla un film e non un poema o romanzo: Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi.
L'Ottocento trattò la guerra in «orizzontale», montandola alle vicende umane come se l'una e le altre appartenessero a una definitiva battaglia campale. Mi riferisco a Guerra e pace e a Il rosso e il nero. Debbo riconosce che gli ussari folli e con ideali borderline di Pukin, che sparano dal letto verso i dipinti appesi sulla parete, mi eccitano assai. E come è possibile dimenticare che Il Conte di Carmagnola e Adelchi del Manzoni sono due Tragedie sulla guerra: intesa come Storia, dunque sempre misfatto e rovina rispetto alla nobiltà degli Eletti che, sconfitti, non possono trovare abbraccio se non in Cielo.
Il Novecento ci consegna romanzi epocali: Addio alle armi e Per chi suona la campana per un Hemingway che intreccia esperienza autobiografica e sentimentale sullo scenario di fango forse dell'ultima guerra (la Grande Guerra) combattuta per rigurgito d'ideali, all'atto eroico sempre di un americano (nel film con un indimenticabile Gary Cooper) che, nella Guerra civile spagnola, si schiera eroicamente con i Repubblicani. Kaputt e La pelle sono quelli di Malaparte.
Nel primo il pratese, descrivendo i soldati congelati nella steppa russa, consegna la più grande installazione di Arte Povera che arriverà dopo un decennio circa dalla sua morte (1957); e una installazione d'arte titanica da fare impallidire le sculture ciclopiche di Damien Hirst. Ma il grande romanzo sulla guerra del Novecento italiano è Il cielo è rosso di Giuseppe Berto. Ragazzini ridotti a topi oltre e prima Hiroshima. Allora è meglio pregare con L'allegria di Ungaretti.
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