La fine del buonismo in cucina, questo è Le cucine del mondo di Christian Boudan pubblicato ora ora da Donzelli. Per capire subito una tale affermazione sarebbe stato meglio che la casa editrice non avesse tradito il titolo originale, Géopolitique du goût. La guerre culinaire, che suona bellicoso anche a chi non conosce il francese. Ma tantè, gli editori italiani si sentono spesso in dovere di depotenziare gli autori stranieri più vitali (indimenticabile la traduzione braghettona con cui la Bompiani tarpò le ali a Il senso della lotta di Michel Houellebecq). Poi ci si lamenta che non si vendono libri.
Ma non tutto il male viene per nuocere, il titolo generico obbliga ad approfondire il ponderoso testo, che generico non è affatto basandosi su una tesi aspra, forte, convincente: le singole cucine (italiana, francese, cinese, giapponese, nordamericana o fast food che dir si voglia) avanzano non per meriti intrinseci bensì per lavanzare dei rispettivi fronti militari, religiosi, migratori, culturali. Il gusto non è mai innocente. Leo Longanesi aveva colto il problema, senza peraltro riuscire a risolverlo se non da un punto di vista personale, quando affermò: «La carne in scatola americana la mangio, ma le ideologie che laccompagnano le lascio sul piatto». Che sia hamburger o che sia sushi non è mai soltanto carne o pesce, è tutto un mondo che si muove e ci trasforma, volenti o nolenti. Se il Giappone non fosse diventato una grande potenza economica oggi si parlerebbe di tempura quanto si parla delle frittelle di fagioli tipiche della cucina del Togo.
Lidea della cultura che segue il potere non è nuova, anzi. Ne parlava nel 1993 il saggio epocale di Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà. Ne parlava nel Settecento il nostro Francesco Algarotti: «La gloria delle lettere va ordinariamente congiunta con quella delle armi. E quando non si teme la spada di una nazione, se ne suole dispregiare anche la penna». Ma Boudan ha il merito di essere il primo a portarla in tavola, o quantomeno il primo a scriverci sopra un libro di quasi quattrocento pagine. Un testo scientifico (pubblicato in Francia da una casa editrice universitaria) che non può sperare di raggiungere il grande pubblico ma che si spera influenzi gli addetti ai lavori. Se nei prossimi mesi sulla stampa si diraderanno le melensaggini sulle cucine esotiche, lobiettivo potrà dirsi raggiunto.
La cosiddetta cucina etnica non è altro che la cucina del più forte. Non è democratica, ecosolidale, noglobal. È anzi darwinista e spietata: è la cucina di chi fa più figli o più film, di chi ha il costo del lavoro più basso o il tasso di aggressività più alto. Il kebab turco che oggi impuzzolentisce le vie di molti centri storici è lultima tappa di una battagliera spedizione che comincia nelle steppe dellAsia centrale allepoca di Tamerlano, il distruttore di Smirne. Un caso da manuale in cui lespansione di un cibo è prima militare e poi demografica (lodierna immigrazione). Oltre alla sovranità, i popoli sconfitti perdono spesso anche i sapori e di quella che era la cucina bizantina rimangono solo vaghe tracce.
Un intero capitolo è dedicato ai guadagni e alle perdite che le scimitarre di Allah hanno prodotto sulle tavole dal Mediterraneo al Caspio. Una storia sanguinosa e complicata, in cui il destino di cibi e bevande non dipende solo dallesito delle varie battaglie ma anche dalle congiure che hanno portato al potere una dinastia piuttosto che unaltra. Gli Abbasidi, ad esempio, nonostante fossero musulmani erano dediti al vino e a banchetti sardanapaleschi, anche perché nelle loro vene scorreva sangue persiano. LIran è la nazione che ha opposto la più strenua resistenza interislamica alla disadorna dieta araba, afflitta da un lungo elenco di proibizioni. Vino e Corano vi hanno convissuto per secoli, basti pensare al poeta Omar Khayyam, fino a quando nel 1979 andò al potere il tetro Khomeini. Le cucine del mondo è pieno zeppo di queste storie ferrigne in cui ingredienti e ricette possono diventare vittime o carnefici al cambiare di secolo o di continente.
Anche Slow Food Revolution, il nuovo libro di Carlo Petrini in uscita l8 giugno da Rizzoli, si presta a una lettura geopolitica. Non cè bisogno di aver letto Boudan, basta dare il giusto peso alla terza parola del titolo. Per spiegare Slow Food sarebbe più logico usare il concetto di controrivoluzione, se la parola non si portasse dietro un rosario di sconfitte, vedi Vandea francese e Armate bianche degli zaristi russi. Inoltre Petrini è di sinistra, o almeno lo era quando nel 1981, in Piemonte, cominciò a fondare sodalizi enogastronomici in quota Arci. E quindi rivoluzione sia, anzi revolution, furbo compromesso con la lingua dellImpero. Una rivoluzione reazionaria, ossimoro giustificato dalle dichiarazioni dello stesso autore: «Senza il fast food non saremmo nati».
Geopoliticamente parlando, Slow Food nasce come risposta, allinizio solo langarola, poi italiana, quindi europea e infine mondiale, alla globalizzazione del gusto. Petrini è troppo astuto per accettare un ruolo diretto nello scontro di civiltà gastronomiche. Va bene che il suo movimento conta 80mila soci in 111 nazioni ma non è così potente da permettersi di guerreggiare in campo aperto. Tanto per cominciare non si considera un antiamericano, visto che nella mappa dei 64 presidi internazionali di Slow Food non mancano i prodotti made in Usa (i tacchini nativi, i formaggi a latte crudo, unostrica particolare). La sua è una battaglia per la diversità, per la difesa delle piccole produzioni, dei saperi contadini, dei sapori autoctoni. È pertanto lalleato naturale della cucina dellEuropa del Sud, uno dei tre grandi poli gastronomici nella visione di Boudan.
La cucina italiana, quella francese e quella spagnola, basate sulla qualità e sul territorio, oggi devono vedersela con il cibo industriale delle multinazionali, con la ristorazione asiatica (specie cinese) e con le burocrazie igieniste annidate a Bruxelles che non vedono lora di abolire qualsiasi alimento che non sia sterilizzato. Geopoliticamente, patriotticamente e golosamente parlando, speriamo che vinca Petrini.
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