di Marcello Zacché
«Sto con Giorgio Napolitano: è arrivato il momento della coesione. Non ci possiamo più permettere questa confusione. È necessario avere una leadership più forte che ridia credibilità al Paese». E ancora: «Ovviamente non tocca a me fare nomi, non è il mio mestiere. Ma il mondo non capisce la nostra confusione, non capisce cosa accade in Italia e tutto ciò ci danneggia moltissimo. Cè chi ha compiuto anche scorrettezze nella sua vita quotidiana. In altri Paesi sarebbe stato costretto a dimettersi immediatamente. Invece da noi non succede nulla». Sergio Marchionne, questa volta da Traverse City, Michigan, Usa, non usa mezzi termini. E poco importa se parole come queste possono avere un effetto devastante sui mercati. Proprio mentre Silvio Berlusconi parla alla Camera, in un clima raramente così teso, sulla situazione economica e politica del Paese, il numero uno di Fiat e Chrysler, dallaltra parte delloceano, se ne esce con frasi che sarebbe ben difficile non leggere come un attacco al premier. Eppure così hanno scelto di fare gli sherpa della comunicazione del gruppo Fiat: «Lad di Fiat-Chrysler nella sua intervista allAnsa non ha fatto alcun riferimento a Berlusconi o ad altri rappresentanti del governo italiano, come si legge correttamente nel testo dellintervista stessa». Aggiungendo poi che «tutte le interpretazioni in tal senso sono destituite di ogni fondamento». Una marcia indietro istituzionale. Ma la realtà è unaltra.
E non è così complessa: Marchionne, come sa chiunque lo conosca e lo abbia seguito da vicino nei suoi viaggi, non parla da politico. Il suo linguaggio è schietto per quanto riguarda la sostanza e originale per quanto concerne la forma: non è raro che, essendo completamente bilingue italiano-inglese, utilizzi vocaboli che possono assumere, in determinati contesti, significati equivoci. Detto questo, si può meglio comprendere lesternazione di Marchionne, rivolta alla classe dirigente di questo Paese, quindi anche a quella politica. E quindi anche a Berlusconi. Forse non come attacco personale, ma piuttosto come manifestazione del malessere di un manager di una multinazionale italiana che si sente danneggiato e legato mani e piedi da lacci e lacciuoli. E che per questo non va tanto per il sottile.
Daltra parte basta ricordare quali e quanti fronti Marchionne abbia aperto in questi ultimi 2-3 anni. Si pensi alla Confindustria, da cui Fiat (che allassociazione degli industriali ha fornito la metà dei presidenti del dopoguerra, scegliendo peraltro anche quasi tutta laltra metà) ha minacciato addirittura di uscire, per spezzare dopo 50 anni il corporativismo delle parti sociali. O si pensi alla frattura tra i sindacati, causata dalle nuove regole che Marchionne ha introdotto per malattie, turni, straordinari. E che sono state accettate dai sindacati bianchi e socialisti, ma non dalla Cgil. E si pensi anche allequivoco generato allinterno dello stesso Pd, che dopo le sue prime uscite alla Fiat non ha esitato a definire il manager italo-canadese un «vero socialdemocratico» (Piero Fassino). Salvo poi ritrovarsi in casa il nemico giurato della Fiom. Questo è Marchionne.
In ogni caso manca qualcosa: le critiche più o meno feroci e più o meno indirizzate al premier andrebbero condite da proposte altrettanto efficaci. Che, per una situazione complessa come quella attuale e, piaccia o no, italiana, Marchionne sembra non avere.
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