Paolo Ruffini è un giornalista autore di una scelta che non ha richiesto coraggio, ma buon senso: davanti a una buona proposta di lavoro l’ha valutata e accettata. In realtà doveva essere un’ottima proposta, quella di La7, visto che il neodirettore della tv del gruppo Telecom non era riuscito a staccarsi da Rai3 nemmeno quando il consiglio di amministrazione l’aveva sostituito. Un anno e mezzo fa Ruffini fece fuoco e fiamme contro la decisione di Viale Mazzini, fece ricorso, lo vinse e riprese la poltrona incautamente affidata ad Antonio Di Bella.
Tanto attaccamento a mamma Rai è svanito davanti alle sirene di un’ambiziosa tv privata impegnata in una campagna acquisti a spese del servizio pubblico finora svolta più a suon di annunci che di contratti: La7 sembrava dovesse ingaggiare Fazio, Saviano, Santoro, la Dandini, la Gabanelli. Cioè la galleria dei volti più noti di Rai3 e più detestati da Silvio Berlusconi. Ma alla corte Telecom è approdato soltanto un numero due di Santoro, Corrado Formigli, e ora appunto Ruffini.
Dunque, si muove un altro notabile della tv italiana. Esce in accordo con la Rai, senza sbattere la porta: ha chiesto lui la risoluzione del legame «dando preavviso contrattuale», precisa una nota di Viale Mazzini. Smaltirà le ferie arretrate, riceverà una ricca liquidazione e incasserà un lauto stipendio. Il mercato televisivo si allarga, le voci si moltiplicano, il pluralismo si rafforza. Bisognerebbe esultare, come fa Enrico Mentana che dirige il tg di La7: «Quella di Ruffini è una scelta di mercato. Tutti noi siamo stati altrove. Si devono abituare, soprattutto coloro che lavorano in Rai o attorno alla Rai, che l’azienda di Viale Mazzini è un soggetto di mercato, non l’unico».
E invece cosa succede in Rai, attorno alla Rai, ai piedi della Rai? Lacrime, stridore di denti e lacerazione di vesti per la fucilazione del partigiano Ruffini, l’ultima vittima del berlusconismo, l’ennesimo epurato da una riedizione dell’editto bulgaro. Piangono l’Usigrai e la Federazione della stampa; scendono in campo Floris e Fabio Fazio; parla addirittura di «mobbing» Beppe Giulietti, passato dai Tg regionali all’Usigrai e quindi al Parlamento (Ds e Idv). Il consigliere Rai Van Straten (Pd) parla di «grave danno». Per il collega Rizzo Nervo «è grave non averlo trattenuto».
Dalla finiana Flavia Perina al dipietrista Leoluca Orlando, è tutto un coro luttuoso. Veste austere gramaglie anche Sergio Zavoli, presidente della commissione di vigilanza Rai: «Con il venir meno del contributo di Paolo Ruffini ai valori del servizio pubblico la Rai non rinuncia solo a un dirigente di prestigio ma s’indebolisce nel suo complesso». La Federconsumatori prepara un esposto alla Corte dei conti. S’inalbera perfino l’Aiart, rediviva associazione dei telespettatori cattolici.
Tutti protestano contro l’incapacità della Rai di trattenere le professionalità migliori e rimpiangono le capacità di Ruffini. Tutti elencano le sue invenzioni («Ballarò», «Che tempo che fa», «In mezz’ora», «Parla con me») dimenticando l’eredità lasciata a Rai3 da Angelo Guglielmi e Giovanni Minoli. Nessuno ricorda i fallimenti di fresca data di Maria Luisa Busi in prima serata e Lucia Annunziata in seconda, o gli sfortunati debutti di Mario Calabresi e Alex Zanardi. Nessuno rammenta che, a partire dall’assunzione nel 1996 dopo l’insediamento del governo Prodi, la carriera in Rai del compagno Ruffini è avvenuta sotto la protezione del centrosinistra. Il lamento funebre è inarrestabile. «È ora che la politica lasci libera la Rai - alza la voce il presidente Paolo Garimberti - e faccia in modo che l’azienda abbia ciò che le è dovuto in termini di risorse». Come se lo stesso Garimberti non fosse stato insediato in Viale Mazzini dalla politica.
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