Cultura e Spettacoli

Guttuso, grande pittore reazionario

Popolarissimo (e potentissimo) in vita, messo da parte, certamente sottovalutato, dopo la morte. Dalla sua scomparsa, avvenuta nel gennaio 1987, Renato Guttuso ha visto progressivamente erodersi il ruolo che aveva avuto nel corso della sua esistenza. Pittore ufficiale del Partito Comunista, frequentatore assiduo dei salotti dell’alta borghesia romana, oggetto di gossip per la dedizione verso il sesso femminile, in particolare per la storica relazione con Marta Marzotto. Chi lo ha conosciuto, parlava di lui come di un galantuomo d’altri tempi, profondamente mediterraneo, personaggio simbolo dell’Italia del ’900 che si apprestava a cambiare faccia, da realtà in prevalenza agricola a metropolitana, evidenziandone tutte le contraddizioni e i voltafaccia.
Se fosse attivo oggi, un pittore come lui verrebbe certo etichettato come reazionario. La sua figurazione, in alcuni casi di grande qualità, non avrebbe nessuna possibilità di transitare nel circuito museale ufficiale. Passerebbe come un artista retrò e quindi ascritto di diritto a un’estetica «di destra». Guttuso ha una folgorazione per Picasso dopo aver visto Guernica, massima espressione del diritto-dovere etico-sociale di un intellettuale, chiamato a esprimersi sui drammi della storia. Dopo quel capolavoro, è il 1937, non sarà più possibile estraniarsi dalla realtà; quindi le elucubrazioni linguistiche delle avanguardie non avevano, secondo lui, diritto di cittadinanza in un’epoca lacerata e devastata. L’arte doveva gridare forte il suo dissenso, esprimendolo senza mezzi termini, con un linguaggio chiaro che arrivasse diritto al cuore della gente.
«Il principe di Bagheria» (così era soprannominato per il suo atteggiamento nobile e seducente) fu in prima linea a combattere la battaglia contro l’arte astratta. Poco importava che i suoi colleghi più giovani fossero in gran parte sostenitori del Pci. Dietro il celebre articolo che Palmiro Togliatti, con lo pseudonimo Roderigo di Castiglia, pubblicò su Rinascita nel 1948, violenta stroncatura del Fronte Nuovo delle Arti, ovvero gli astrattisti definiti autori di «cose mostruose e scarabocchi», c’era lui, Guttuso, a dettare la linea ufficiale del Partito sulla materia estetica, linea che mutuava direttamente dal ministro della cultura sovietico Zdanov, espressione dello stalinismo, con il quale manteneva contatti serrati. Quella visione dell’arte che metteva al primo posto il contenuto, è stata clamorosamente bocciata dalla storia e soprattutto dalla cultura di sinistra che, appena ha potuto, si è liberata dell’ingombrante fardello guttusiano per crogiolarsi in una formulazione elitaria che il pittore siciliano avrebbe certo rigettato.
C’è un’altra contraddizione interessante: il suo capolavoro assoluto, la Crocifissione del 1941 in collezione alla GNAM di Roma, Guttuso lo realizza durante il fascismo. Non solo, ne fu assoluto estimatore il ministro Giuseppe Bottai, editore della rivista Primato e fondatore del Premio Bergamo (nato in risposta al fascistissimo Premio Cremona voluto da Farinacci). Proprio Guttuso, nel ’42, vince la quarta e ultima edizione del Premio con quel quadro geniale, che stravolgeva l’iconografia manierista del Rosso Fiorentino, insinuando un atteggiamento ribelle e anticonformista, e che in seguito ispirerà le visioni cinematografiche di Pier Paolo Pasolini.
La verità è che Guttuso è un maestro senza allievi. Non c’è in Italia un altro pittore realista del suo livello e quindi, nonostante il ruolo pubblico di «artista della corte rossa», non si può non leggerlo come un grande isolato. Sorte analoga a quella toccata a Francis Bacon in Gran Bretagna, ma quanto l’irlandese fu eretico, oltraggioso e carnale, tanto il siciliano scelse la via di una figurazione commerciale, redditizia e prevedibile. La differenza sostanziale tra i due sta nel fatto che Bacon è adorato dalle generazioni successive come un guru (da Gilbert & George a Damien Hirst tutti gli devono qualcosa), mentre Guttuso rappresenta ancora uno scomodo tabù, un peso da rimuovere, soprattutto imbarazza la sua militanza politica a fronte di una concezione così anticontemporanea.
Eppure, rivedendo in fila alcuni dei suoi quadri migliori alla «Fondazione Magnani Rocca» presso Parma in una delle retrospettive postume più ampie, bisogna essere onesti e apprezzare il talento immaginifico di questo autore che meriterebbe più considerazione e una lettura meno viziata dal corso della storia. La spiaggia del 1955-56, a esempio, è il manifesto del passaggio al realismo esistenziale, che segna una ritrovata voglia dei giovani italiani di uscire, divertirsi, spogliarsi, dimenticando i traumi della guerra. Se dipinti come Fosse Ardeatine (1950) dimostrano tutta la loro età per via di un certo trito ideologismo, sono le opere tarde che non mancheranno di stupire chi poco le conosce: le stupende nature morte, il Caffè Greco (1976), affresco su una romanità perduta, soprattutto Spes contra Spem (1982), riassunto di una vita in un unico folgorante frame e l’autunnale Passeggiata in giardino a Velate (1982), dove l’uomo, più che l’artista è solo con se stesso e la paura della morte.
Da segnalare infine la ricca sezione dedicata all’erotismo, tema che ha accompagnato Guttuso non come un’ossessione, ma come un autentico piacere.

Perché lui era un uomo che amava le donne.

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