Guus santone vincente anche se non vince più

Non s’è più fatto crescere i baffi. È cresciuta solo la pancia: piena di cibi grassi, caffè e gloria. Piena di sé, piena di Guus. Fa parte del personaggio: il santone contemporaneo, tutto dottrina, forza, passione. L’oggetto del desiderio della Juventus è uno che s’è riempito la vita di calcio e di boria, di successi e di parole. Perché Hiddink parla. Parla volentieri di sé. Dei suoi 63 anni e del suo modo di essere unico. Legge, pure. Sfoglia la rosa di commenti che la vita gli ha messo sulla strada del lavoro. Positivi, esaltanti, inebriati. Tutti innamorati di lui, tutti esaltati dal suo modo di essere e di fare: miliardario con l’aria di chi non se ne cura, poi concentrato, preparato, calcolatore. Il genio, l’hanno chiamato per una vita i suoi calciatori. Lui lascia fare, non è uno di quelli che si rimpiccioliscono davanti al successo. Vedi la pancia. Guus pensa che essere convinti sia la condizione numero uno: se non credi in te stesso non vai da nessuna parte. Lui, invece, ha girato il mondo. Da calciatore era modesto: il massimo della vita qualche stagione nel Psv Eindhoven, dove era arrivato attraverso la sua vera squadra, il De Graafschap: lì era giocatore e contemporaneamente assistente dell’allenatore. Sdoppiato, come sempre. Come negli ultimi anni quando faceva il commissario tecnico e contemporaneamente l’allenatore di una squadra di club: prima con Australia e Psv Eindhoven, poi con Russia e Chelsea. Sì, ok, a Londra è rimasto poco. Ma non è il tempo che conta. È la predisposizione a sdoppiarsi, a gestire due cose contemporaneamente, a lavorare su due obiettivi diversi.
I soldi convincono spesso: quelli di Abramovich avevano persuaso Hiddink ad accettare lo spostamento a Londra nel pieno della corsa verso il mondiale della Russia. Lì, a Mosca, c’erano molti altri soldi. Tanti quanti non aveva visti nessuno prima: oggi Guus è passato per l’avido mangiastipendi. La mancata qualificazione della Russia ha cominciato a picconare l’immagine di vincente dei due mondi, di campione dell’ubiquità. Quello aveva funzionato prima: gli ottavi di finale al mondiale con l’Australia e lo scudetto con il Psv. Tutto nel 2006, l’anno della grazia infinita, l’anno del bisticcio con l’Italia. Non ha mai accettato la sconfitta nella Coppa del Mondo, non ha mai considerato rigore il fallo su Grosso all’ultimo minuto, non ha mai sopportato l’esultanza dell’Italia. Era rimasto molto più convinto quattro anni prima, in Corea. Grazie all’arbitro Byron Moreno. Italia fatta fuori, Corea del Sud ai quarti e poi in semifinale per merito di un altro arbitro, un egiziano.
Per non pensare all’eliminazione dal mondiale 2006, Guus si mise a lavorare su casa sua. Cemento, secchio, cazzuola per rendere abitabile un ex rudere che aveva comprato ad Amsterdam. L’aveva promesso alla compagna Liesbeth che per undici mesi l’anno lo segue ovunque e quattro anni fa gli aveva chiesto questo favore. Hiddink disse sì, a patto che però lei non chiedesse altro: «Sono già stato sposato, non voglio ripetere l’esperienza». All’epoca del matrimonio giocava: dal Psv al campionato americano. Prima i Washington Diplomats, poi i San José Earthquakes. Il tempo di conoscere di persona George Best. Poi l’addio, precoce, veloce, concitato. Niente più campo, niente più Stati Uniti. Era già pronto per una panchina: la prima che accettò fu quella del De Graafschap. Poi altro ritorno. A Eindhoven, a casa della Philips per il Psv. Firmò nel 1984 e restò fino al 1990. Firmò per aprire un capitolo di gloria. Il primo: tre titoli olandesi e una Coppa dei campioni. Guus era diventato famoso. Serio, preciso, puntuale. Un po’ altezzoso, però poi terra terra quando doveva parlare delle sue manie. Il contrario di quello che fanno gli altri: Hiddink odia parlare di pallone con quelli che secondo lui non ne capiscono, quindi se potesse trasformerebbe ogni conferenza stampa in una chiacchierata sulla sua vita. Mister, ma che fa quando non è sul campo ad allenare? Una domanda del genere gli piacerebbe un sacco: “La mia grande passione è la moto. Ho una Harley Davidson che uso poco perché non ho molto tempo libero. Però la mia vacanza ideale sarebbe questa: un paio di mesi in giro per l’Europa in Harley”. Il compagno delle sgasate è Hessel van der Kooy, un rocker che chiamano il Bruce Springsteen d’Olanda. L’altro fedelissimo è Cees van Nieuwenhuizen, il suo agente. Il compagno di caffè: ne bevono una ventina al giorno. Lavorano insieme da una vita, da quando i turchi del Fenerbahce si presentarono a Eindhoven offrendo due miliardi netti di lire a stagione. Hiddink e Cees si guardarono. L’allenatore accettò: aveva i baffi e se li portò appresso in Turchia per una stagione, poi a Valencia per un altro capitolo. Tre anni per imparare lo spagnolo e trasformare il Valencia nella terza squadra della Liga, per dare un gioco a chi non ne aveva, per dare una struttura tecnica e d’immagine da club vero a chi si sentiva costantemente dieci gradini inferiore a Real e Barcellona. I giornali scrivevano: «È un grande comunicatore e ha molto carisma». Dipende dai gusti: negli allenamenti, Guus insulta i calciatori, li schiaccia, sembra voglia mangiarseli. Poi però li tratta come dei nipoti fuori e durante le partite. È un duro, comunque.
A Valencia Hiddink diventò celebre quando allo stadio Mestalla, prima di una partita della Liga, ordinò di togliere uno striscione nazista esposto sulle gradinate: «Via quella scritta o altrimenti la mia squadra non gioca». Il simbolo dell’anti-razzismo, scrissero tutti. Eppure no. Non in Olanda. Non per Edgar Davids, il pitbull di Ajax, Milan e Juventus: era appena cominciato il ritiro olandese dell’europeo 1996 e Guus era stato nominato ct arancione da qualche tempo. Edgar urlò negli spogliatoi: «Mister hai ficcato la testa nel culo dei bianchi, eh. Be’, sai che ti dico, io sono stufo di correre per loro, per leccargli il culo». Loro erano i gemelli De Boer e Blind. Hiddink ascoltò l’accusa di razzismo, poi parlò: «Prepara la tua roba, te ne torni a casa». Davids raccolse borsa e da solo ritornò in Olanda. Prima degli altri, prima di Guus. Due anni dopo vennero i Mondiali. Hiddink si fece aiutare da dieci persone. Uno staff di tecnici e consiglieri che avrebbe dato stabilità al gruppo, facilitando i rapporti tra i clan. Così il 14 maggio 1998, il giorno delle convocazioni ufficiali per il Mondiale, nel gruppo c’era anche Davids. Quell’Olanda fece bene: eliminata ai rigori dal Brasile in semifinale. Quarto alla Coppa del mondo.
Hiddink aveva solo da scegliere, a quel punto. Tutti a dire: va a Madrid, sicuro. Allora glielo chiesero: vai al Real? «Io? No». Invece prese l’offerta del Real Madrid: vinse la Coppa intercontinentale e da allora niente baffi, ma entrò in crisi con Lorenzo Sanz, che lo liquidò amando di più Capello. Sei mesi al Betis Siviglia e poi nel dicembre del 2000, la chiamata della Corea del sud: ottimo salario, una bella macchina, un bonus vittorie. Lui doveva soltanto superare il primo turno e chiudere almeno un pelo avanti al Giappone. Lì Guus ha cambiato la vita a un Paese e a se stesso. È diventato l’icona del vincente anche se non vince: il quarto posto al Mondiale per la Corea è una leggenda che è valsa quattro anni di voli gratis offerti dalla Korean Airlines, quattro statue costruite in quattro città, il titolo di uomo ideale, di marito ideale, una nuova Hyunday EF Sonatas. È valso l’eternità: nel comune di Gwangju lo stadio si chiamerà per sempre Guus Hiddink Stadium.

Quando se ne andò per prendere un altro incarico raddoppiarono l’ingaggio: «Siete meravigliosi, ma ho bisogno di altre avventure». Quindi l’Australia e il Psv, poi la Russia e il Chelsea. La Juventus? Possibile. Oggi, domani, chissà. Se risponde no è fatta.

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