Con la morte, a 87 anni, di Umberto Albini scompare un illustre grecista, filologo e appassionato di letteratura ungherese. In campo teatrale, laltro suo grande interesse, aveva collaborato con alcuni dei principali teatri italiani ed era stato presidente dellIstituto nazionale del Dramma Antico di Siracusa. Ne traccia un ricordo commosso lautore e regista Sergio Maifredi.
di Sergio Maifredi
Non erano lezioni, le sue, erano veri e propri happening teatrali. Oreste, Agamennone, Elettra, non erano più distanti 2.500 anni ma erano lì, davanti a noi. Avevo diciotto anni e marinavo le lezioni al liceo per inseguire Umberto Albini. Con lui il Greco non era più fatto di aoristi e metrica ma diventava una lingua viva, sporca di sangue e sudore, intrisa di poesia e ferocia. Con lui la Grecia era sempre nostra contemporanea. Il Mito era calato nel presente. Ad una sua lezione scoprii una Elektra ungherese, scritta dopo i fatti del 1956 da Laslò Gyurkò, da cui Miclòs Jancsò aveva poi tratto una versione cinematografica. Con l'incoscienza dell'adolescenza andai da Albini al termine di una lezione di inizio Novembre chiedendogli come fare ad avere il copione. Non esiste in italiano, mi disse Albini. Ma se Lei vuole gliela traduco per Febbraio. Se mi deve chiamare non lo faccia mai dopo le nove di sera. Vado a dormire presto e mi sveglio alle sei. Da quell'ora può chiamarmi quando vuole. Ci vediamo a Febbraio. A Febbraio mi presentai. Il copione era pronto. Era un regalo. Umberto Albini, il grecista noto in tutto il mondo, aveva tradotto dal magiaro questa Elektra «politica» scommettendo su un ragazzetto appena maggiorenne. Lo portai in scena e fu il mio primo lavoro. Parlammo a lungo in quegli anni, mi raccontò qualche segreto della sua «officina». Traduco con mia moglie accanto, leggo a lei per prima, con lei scelgo la parola giusta, poi lascio decantare la traduzione, la riprendo settimane dopo, la rileggo a voce alta, davanti allo specchio, per vedere se suona, se le parole saranno dicibili dagli attori. Una traduzione invecchia presto, al massimo dura quindici anni, poi la lingua cambia. Continuai negli anni a cercare di non perdere occasione per andare ad ascoltarlo. Negli ultimi anni la vista era affaticata ma la mente era sempre lucidissima. Gli andai a raccontare un mio progetto intitolato «Da Epidauro a Second Life», volevo parlare dello spazio scenico in cui l'uomo si rappresenta, dal teatro in pietra fino alla rappresentazione di sé oltre lo schermo di un computer. Cercavo di scandire lentamente le parole parlando di computer, internet e Second Life. Ancora una volta ero stupidamente in ritardo sul suo cervello veloce e leggero.
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