Il 23 maggio tornerà in tribunale a Torre Annunziata, in quell’aula che l’ha vista vincere uno sfracello di cause. Ma non sarà più come quando, da bambina, indossava un lenzuolo a mo’ di toga, si accomodava sulla punta del naso gli occhiali della nonna e stupiva fratelli e cugini con le sue arrighe. Stavolta Giuditta Russo dovrà vestire i panni più scomodi: quelli di imputata. Quattordici i capi d’accusa. Quattro gli anni di galera teorici che l’aspettano. «Spero d’essere condannata», si giudica da sé.
La chiacchiera non le è mai mancata, la smania di protagonismo neppure. Sarebbe stato sufficiente che avesse mantenuto fede alla promessa dei suoi 10 anni: «Io farò l’avvocata. Ridete pure, ma io da grande difenderò i più deboli e porterò la giustizia ovunque». Invece Giuditta Russo non lo è mai diventata, avvocata. Per più di dieci anni ha finto d’esserlo. Ha portato la giustizia ovunque senza aver dato un esame, senza aver discusso la tesi di laurea, senza aver superato l’abilitazione. Aveva uno studio a Pompei e uno a Mirandola, le targhe d’ottone sulla porta, la carta intestata, i biglietti da visita: «Dott. Avv.». Sbaragliava le controparti a Napoli, a Milano, a Modena, a Parma, a Trento. Ovunque appunto. Di preciso non sa neppure lei quante cause ha vinto. Sui giornali è stato scritto 250. «Diciamo tuttemeno una: l’ultima». È quella che le ha distrutto la vita: il matrimonio fallito, un milione di euro da restituire, il suicidio come unica via d’uscita. Dal 1˚ novembre 2005 sta cercando di rimettere insieme i cocci della sua personalità con periodiche sedute di psicoterapia.
Non l’avrebbero mai scoperta se non si fosse autodenunciata. Prima alla Procura di Torre Annunziata, poi col libro Confessioni di un avvocato senza laurea pubblicato da Cairo Editore, i cui diritti cinematografici sono stati acquistati dalla Smile production di Giuseppe Pedersoli, figlio di Bud Spencer. Lo ha scritto di getto dopo aver letto la storia di Jean-Claude Romand, un cittadino francese che per 18 anni ha finto di essere un medico e alla fine ha creduto di poter dirimere la sua crisi identitaria uccidendo la moglie, i figlioletti di 8 e 5 anni, i genitori e anche il cane.
Adesso l’avvocata immaginaria ha appena finito di scrivere il seguito: la storia di una ladra. «Niente di autobiografico, per carità». Tutto tranne che delinquente, Giuditta Russo, figlia di un operaio metalmeccanico oggi in pensione e di una casalinga. Ma un conflitto irrisolto giganteggia sulla sua vita e la perseguita anche qui, sull’Appennino laziale, dove ha cercato rifugio nella speranza che nessuno venga a cercarla per vendicarsi. S’è sempre sentita sbagliata, fin dal primo istante: «Accadde il 27 dicembre 1970, a Pompei. Mio padre era andato al cinema, sicuro che non sarei nata quella sera. Ho squartato mia madre in due, tanto ero grossa. Il medico era lo stesso che un anno prima aveva fatto venire alla luce la mia sorella maggiore. Mamma gli chiese subito che aspetto avessi. “Si ricorda quant’era bella Rosita?”, sospirò lui. “Ecco, Giuditta è l’esatto contrario” ». Un anno dopo sarebbe arrivato il fratellino Gigi. Passati altri 19 anni, Luca, «e non per sbaglio, per amore». Ma lei avrebbe continuato a sentirsi il brutto anatroccolo della nidiata. Il resto, tutto il resto, è venuto di conseguenza.
Che ci fa su queste montagne?
«Ho trovato posto come impiegata
in uno studio legale».
Recidiva.
«Devo pagare i debiti e ho accettato
la generosa offerta di un avvocato».
Chi vive in questa casa?
«Solo io. Mio marito Gennaro mi
ha lasciata. Ci eravamo sposati nel
1999. È un impiegato del ministero
della Giustizia e non ha sopportato
l’idea che mi fossi spacciata per avvocato
proprio con lui. Ha creduto
che gli avessi mentito anche su tutto
il resto. Ma io non sono una bugiarda.
Non ha voluto sentir ragioni:
“Dovevi dirmelo prima del matrimonio”.
Ora lavora presso un tribunale
del Molise. Ci sentiamo trenta
volte al giorno. Credo che si sia
rifatto una vita con un’altra donna».
Mi parli di lei a scuola.
«Ho frequentato il liceo classico Benedetto
Croce a Torre Annunziata.
Bravissima in italiano, latino e greco,
una schiappa in matematica e
scienze. Nei temi in classe prendevo
sempre 9. Per mio padre ero la
figlia che doveva avere una marcia
in più. Ricordo ancora la vergogna
che provai a 8 anni, una domenica
a pranzo, inventandomi che ero
stata inclusa nella squadra di pallacanestro
della scuola. Lo feci solo
per attirare la sua attenzione. Il
guaio è che nonsapevo neppure come
si giocasse a basket, per cui ci
mise poco a sbugiardarmi. Il sanguemi
pulsava così forte nelle tempie
che credetti di morire per la vergogna».
E dopo il liceo?
«All’Università Federico II di Napoli
per diventare avvocato, destino
segnato. Solo che la coda per iscriversi
a giurisprudenza era interminabile.
Così scelsi la fila più corta:
scienze politiche. Tanto, pensai, gli
esami del primo anno sono uguali,
poi cambierò facoltà. A casa non
dissi nulla. Preparai benissimo il
primo esame: diritto privato. Ma
quando il professore chiamò il mio
nome, mi si azzerò la salivazione e
finsi di non essere in aula. Ero in
preda al terrore».
Perché?
«Sapevo quanto ci tenessero i miei
e mi sconvolgeva l’idea di poterli
deludere. Il carico d’aspettativa mi
schiacciava. Studiai col massimo
impegno anche per i 20 esami successivi:
diritto pubblico, istituzioni
di diritto romano, filosofia del diritto,
diritto civile, diritto commerciale,
diritto del lavoro... Non ne ho
mai dato uno. Andavo, mi sedevo e
quando veniva il mio
turno fuggivo. Se le
strade di Mergellina
potessero parlare...
Ogni volta le lastricavo
di vomito».
Ai suoi che cosa raccontava?
«Che era andato tutto
bene. Mi davo anche
i voti da sola:
qualche 28, parecchi
30 e lode. Sentivo di
meritarmeli».
Non pensò di chiedere
aiuto?
«Non individuavo
nessuno cui poter
confidare il mio atroce
segreto. Dal terzo
anno smisi di versare
le tasse d’iscrizione:
mi sembrava di rubare.
Ai miei dissi che
me le pagavo da sola.
Di giorno lavoravo come
impiegata in uno
studio legale. Mi alzavo
alle 3 di notte per
studiare.Mi caricavo la moka grande
e stavo sui libri fino all’alba. Papà
veniva a baciarmi alle 5.30,
quando usciva per andare in fabbrica.
Preparai con scrupolo la tesi
di laurea in diritto penale».
Argomento?
«Il 416 bis e le associazioni a delinquere
distampo mafioso e camorristico.
Un malloppo di 200 pagine
fatto rilegare in una tipografia di
Napoli».
Dov’è finita?
«Strappata e gettata in mare. Cancellato
anche il file che custodivo
nel computer dell’ufficio. Però posso
vantarmi di non aver falsificato
alcun atto: mai esibito il certificato
di laurea, mai avuto il tesserino di
accesso al tribunale».
Allo studio legale nessuno s’insospettì?
Non esistono controlli? A
questo punto si potrebbe concludere
che in circolazione ci sono decine
di avvocati fasulli.
«Secondo me, lo dico a naso, è così.
E non solo avvocati... A Pompei avevo
aperto uno studio con una giovane
collega. Lei è rimasta lì. Le ho
lasciato tutto, anche il dispiacere.
Più risentita».
Guadagnava bene?
«Mi sono sempre tenuta al di sotto
delle tariffe minime nel timore che
uncliente scontento si rivolgesse all’Ordine
degli avvocati per chiedere
un parere sulla congruità della
parcella: mi avrebbero scoperta».
Ma le cause che ha vinto non sono
state invalidate?
«No, nessuna. Avevo l’accortezza
di affrontarle con un doppio mandato:
insieme a me veniva sempre
nominato un altro difensore, ignaro
di tutto, che poi non si occupava
del processo. E le sentenze le facevo
passare subito in giudicato. Dopo
la mia confessione, non sono state
impugnate né dai
giudici né dalle controparti».
Tanto era brava...
«Ero molto tenace.
Sono sicurissima
che, se mi fossi laureata,
sarei stata un’ottima
avvocata, al di
sopra della media.
Ha dovuto riconoscerlo
anche il professor
Marco Ventura, ordinario
presso la facoltà
di giurisprudenza
dell’Università di Siena,
dove mi hanno invitata
a presentare il
mio libro: “Meriterebbe
una laurea honoris
causa...”».
Ci faccia un pensierino.
«Non la vorrei mai.
Però lo considero un
attestato morale. Col
diritto ho chiuso. Mi
piacerebbe fare la
scrittrice e veder pubblicato
il mio nuovo libro, la storia
di una ladra».
Mi dica che non è lei.
«Siamo tutti un po’ ladri. Questa è
una ladra che non ruba cose materiali.
Ruba qualcosa di particolare.
Ho anche scritto un programma
per la Tv che s’intitola Stoffa. L’ho
mandatoa Serena Dandini. Speriamo
bene».
La resa dei conti come arrivò?
«Ebbi la netta sensazione che un
avvocato della controparte avesse
scoperto il mio segreto. Così gliela
diedi vinta. Era una causa di lavoro
al Tar della Campania. Dissi ai
miei clienti che era andata bene.
Però c’erano di mezzo due indennizzi
per complessivi 120.000 euro
e dopo un po’ i patrocinati cominciarono
a chiedermi: “Avvocato,
quando arrivano i soldi?”. Scelsi
d’inventarmi un’altra balla. Chiamai il
mio amico del cuore e gli proposi
un inesistente investimento
della Comunità europea: 70.000
euro che sarebbero diventati
100.000 in tre mesi. Una cosa folle,
un interesse netto del 170% l’anno
che avrebbe insospettito chiunque,
ma la rapacità umana, si sa... Un
minuto dopo mi aveva già bonificato
online i 70.000 euro. Feci lo stesso
discorso a un altro amico. Anche
lui si buttò a pesce sulla golosa
offerta».
Solo che dopo tre mesi doveva ritornare
ai due il loro capitale con
i lucrosi interessi.
«Appunto. Perciò misi in piedi una
catena di Sant’Antonio, stavolta
proponendo addirittura 30.000 di
investimento e 70.000 d’interessi.
Arrivai così a un milione di euro. In
14 sono rimasti col cerino in mano.
Ce la sto mettendo tutta per risarcirli,
ma intanto loro si sono costituiti
parte civile nel mio processo».
Quali sono i capi d’imputazione?
«Esercizio abusivo della professione
forense e di quella di consulente
finanziario, truffa, falso in atto pubblico,
falso in scrittura privata, falso
in fideiussione bancaria e via di
questo passo. Ho scelto il rito abbreviato.
Non volevo patteggiare».
Forse le conveniva.
«Non voglio essere condannata
per truffa. Mi batterò perché l’accusa
venga derubricata in appropriazione
indebita. La truffa contempla
due elementi: il raggiro e l’indebito
arricchimento. Ma io posso dimostrare
che per me non ho tenuto
neppure un centesimo. È tutto documentato
dai movimenti sul mio
conto corrente».
A chi confessò?
«Una sera d’agosto mi presentai a
casa del presidente della Camera
penale di Torre Annunziata, un galantuomo
che era anche consigliere
dell’Ordine degli avvocati. Mi
ascoltò impassibile per tre ore. Alla
finemi disse: “Io ti difendo”. L’indomani
rinunciò a entrambe le cariche
per avere la libertà di farlo.
Non lo dimenticherò mai. Mi presentai
in Procura e chiesi al pubblico
ministero di chiudermi in carcere.
“Dove vuole che la mandi? Non
ci sono le esigenze di custodia cautelare”,
mi rincuorò».
Niente indagini?
«Come no. Un anno e mezzo sono
durate. Gli atti che mi riguardano
occupano un faldone alto 80 centimetri.
Però si concludono così, l’ho
imparato a memoria: “Nulla da aggiungere
a quanto riferito dall’indagata”.
È il riconoscimento che
ho detto la verità».
Che cosa pensa degli avvocati?
«Lei crede che se mi fossi laureata
sarei stata così brava? Trovo che
se facessero il loro lavoro con più
passione sarebbero una casta bellissima».
Però cercano di far passare per
innocenti anche gli imputati che
hanno commesso gravi delitti. E
la giustizia?
«Il sistema processuale è disgiunto
dalla morale. Ho avuto anch’io bisogno
di un difensore che se ne fregasse
della morale pubblica».
La legge è veramente uguale per
tutti, come si legge nei tribunali?
«No. È più uguale per chi nella vita
ha avuto più possibilità. Una persona importante
che debba rispondere
di bancarotta fraudolenta, evasione
fiscale, truffa ai danni dello
Stato ha i mezzi per tirarla in lungo
fino alla prescrizione. Un piccolo
imprenditore no».
Ora che è consulente legale di Assoimprese
lei ne sa qualcosa.
«Sono riconoscente al presidente
Giovanni Mondelli che mi ha offerto
questa nuova opportunità di lavoro.
Lui sostiene che in un primo
momento aveva pensato a Giulia
Bongiorno, l’avvocata di Giulio Andreotti
che ora è stata eletta in Parlamento,
ma io penso che esageri».
Dice Mondelli che non ha nessuna
importanza se lei non ha una laurea:
non ce l’ha neppure Bill Gates.
«Onorata del confronto. Ma preferisco
che qualcuno mi abbia paragonata
a Dacia Maraini come scrittrice».
Alla fine del libro ringrazia don
Franco Soprano. Chi è?
«È il rettore del santuario della Beata
Vergine di Pompei, ha celebrato
le mie nozze. Andai
a confidargli che
mi sarei buttata giù
dal campanile. “E
vabbuo’, vorrà dire
che facimmo ’nu bello
funnarale”, rispose
lui. “Durante la
predica spiegherò
quant’eri brava, bella,
intelligente. Ma i
prublem i lasse tutti
’cca? Prova prima a
risolverli”».
È riuscita a capire
perché proprio lei
doveva cacciarsi in
questo pasticcio?
«Non mi sentivo all’altezza
di nulla, facevo
a pugni con la
mia normalità. Mia
sorella aveva i capelli
lunghi, io rasati. Lei
poteva portarli sciolti
sulle spalle e io, che
adoravo mollettine e
cerchietti, dovevo invece
indossare un
berrettone. Ero goffa, travestivo i
chili di troppo con i maglioni. Per
gli altri nonimportava che fossi bella,
perché ero intelligente. Hanno
minato le mie sicurezze. Non ci ho
provato con la droga per paura delle
siringhe, non ci ho provato con
l’anoressia perché amo la pasta.
Sono stata tossicodipendente dalle
mie bugie».
E oggi?
«Di notte non mi sveglio più di soprassalto.
Prima sognavo sempre
di cascare in unburrone.
(411. Continua)
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