Haiti, catastrofe dell’anticapitalismo

Il senso della natura che si ribella a se stessa, la ragione di una violenza che cancella ogni forma, non si può certo spiegare con le categorie della razionalità. 100 o addirittura 500mila morti ad Haiti ci svelano impotenti di fronte alla natura non più di quanto la singola e prematura scomparsa di un affetto. I numeri perdono il senso del loro racconto, e la forza del disastro si regge sul se, sulla sua eventualità, più che sul quanto e sulla sua dimensione. Una morte bianca come un terremoto, ci sprofondano nel buco nero di una natura maligna, che non controlliamo quanto vorremmo e presumiamo di fare.
Eppure quei numeri ci dicono anche che i diversi modelli di sviluppo sociale che gli uomini adottano hanno un peso nel contrastare la forza della natura. Il dramma di una regione in cui l’aspettativa di vita è di 50 anni contro i quasi 80 dei Paesi sviluppati si riflette nelle immagini tragiche del terremoto dell’altro giorno. Un bambino su due (la percentuale è ancora peggiore e si attesta al 57 per cento) muore in fasce; solo metà della popolazione sa scrivere o ha accesso all’acqua potabile: il Paese è tra i più poveri al mondo e tra i meno attrezzati a resistere a qualsiasi calamità. Negli ultimi dieci anni ci sono stati, solo per disastri naturali censiti, 10mila morti.
La televisione deforma una realtà che sembra quella delle nostre tragedie ma che ne è distante anni luce. È una povertà che ci siamo lasciati alle spalle in un secolo di rivoluzione industriale prima e capitalistica poi.
Eppure Haiti, come l’Abruzzo, resta una terra che, banalmente, trema e inghiotte il suo contenuto superficiale. Un contenuto preziosissimo dal nostro punto di vista, ma tutto sommato marginale nell’economia (la scienza delle risorse scarse) dell’universo. Haiti sembra raccontare così la naturale e plastica condizione della nostra vulnerabilità. E però le cose non sono così semplici. L’uomo nei secoli, ed oggi specialmente, si è costruito una presunzione straordinaria: quella di essere dominus di ciò che lo circonda. Quasi a far scomparire la morte, l’uomo si è cullato nel terribile orgoglio di ritenersi unico somministratore del fin di vita. È l’uomo, in questa folle corsa al primato, che a suo piacimento può distruggere se stesso ed eventualmente la natura; e non viceversa. Le catastrofi sono dunque, a causa di questa presunzione, incomprensibili, inaccettabili alla stessa guisa di come, nel mondo occidentale ed evoluto, sono inaccettabili le «morti premature». Come se ci fosse una «maturità» per la morte.
È vero, il dramma che si sta consumando in queste ore ci ricorda dell’impotenza dell’uomo. Ma nello stesso tempo della sua forza. È questa la feroce contraddizione a cui ci riporta il dramma di Haiti.

Noi occidentali abbiamo la presunzione di aver domato definitivamente la natura. E in ciò sbagliamo. Ma noi occidentali abbiamo anche la consapevolezza di aver migliorato la nostra condizione, di aver costruito il nostro destino, di aver fatto un passo avanti. E su questo abbiamo ragione.

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