Hamas «condannata» ad aver bisogno di Israele

Anche se non c’è nulla di erotico nella politica palestinese, le si addice la definizione che i francesi danno al sesso: «Plus ça change, plus c’est la même chose». La posizione di Hamas, organizzazione islamica terrorista chiamata al governo dell’Autorità palestinese, si esprime con i tre famosi «no» di Khartoum che il movimento vincitore delle recenti elezioni ha fatto suoi. Nell’agosto del 1967 Nasser, dimissionario, ma riportato a furor di popolo alla guida dell’Egitto sconfitto da Israele nella Guerra dei Sei Giorni, li impose agli altri Stati arabi con il «no» al riconoscimento di Israele, il «no» ai negoziati con Israele, il «no» alla pace con Israele. Visto come è finita la linea anti-israeliana per il panarabismo nasseriano, è utile ricordare al panislamismo di Hamas che, alle volte, «fornicare» con Israele può avere qualche vantaggio. Il suo successo elettorale non è infatti dovuto ai suoi «martiri», ma allo sdegno popolare per il malgoverno dell’Autorità palestinese per la corruzione, l’arroganza dei «tunisini» paracadutati dall’estero assieme ad Arafat in Palestina grazie agli accordi di Oslo.
La dirigenza di Hamas sa che nessun governo israeliano ripeterebbe oggi l’errore di Rabin e Peres di accettare per buone le intenzioni di pace di un Abu Mazen sostenuto da Hamas. I nuovi leader palestinesi sono coscienti del fatto che si sono guadagnati la fiducia dell’elettorato grazie alla loro onestà, alla loro devozione civica, alle reti di assistenza, educazione, sanità che hanno saputo sviluppare attorno alle moschee per colmare in parte le deficienze e le ruberie di Al Fatah. Sanno di essere condannati, se vogliono «gustare» i piaceri del potere, a dimostrare la loro capacità nel creare le basi di uno Stato responsabile. L’alternativa è di scomparire sia fisicamente, sia politicamente se non saranno in grado di dimostrare ai loro elettori una responsabilità organizzativa, finanziaria, di sicurezza pubblica: condizioni necessarie per realizzare lo sviluppo economico e politico che i palestinesi chiedono.
Per cui i dirigenti di Hamas - che non è un’organizzazione indisciplinata e rivoluzionaria come l’Olp di Arafat - hanno bisogno di Israele molto più di quanto Israele abbia bisogno del loro riconoscimento che, in quanto Stato sovrano esistente con successo da cinquant’anni, non è certo necessario. Dietro alle altisonanti dichiarazioni di principio dalle due parti ci sono dunque primi segni di realismo. Hamas ha mosso i primi passi tentando di registrare le armi di tutte le milizie «nazionali» e confiscare quelle delle piccole mafie che taglieggiano la popolazione. Ha ventilato la possibilità di «prolungare la tregua» nella lotta contro Israele (che sarebbe dovuta terminare il 31 gennaio ma continua) trasformandola in una «tregua di generazioni».


Ciò che Israele chiede per il momento attraverso discreti contatti di intelligence è la continuazione di questa tregua durante il periodo elettorale che culminerà per lo Stato ebraico il 28 marzo prossimo, sviluppando una cooperazione contro «i cani sciolti» (Jihad islamica eccetera) che vogliono colpire Israele non meno che il prestigio di Hamas. Da ambo le parti si vuol salvare la faccia, ma sul terreno si cercano accomodamenti capaci di trasformare i tre «no» di Hamas come quelli di Khartoum.

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