Hamas ha vinto, su Gaza la legge della violenza. Abu Mazen scioglie il governo

Giustiziati nelle strade i militanti di Fatah: i sopravvissuti a Ramallah con l’aiuto di Israele. Il presidente chiede l’invio di una forza di pace

Hamas ha vinto, su Gaza la legge della violenza. Abu Mazen scioglie il governo

Gerusalemme - Gaza è caduta. L’Autorità palestinese è crollata. Mahmoud Abbas ha consegnato al mondo l’atteso harakiri politico. Dissolve il Parlamento, scioglie il governo, decreta Gaza zona in rivolta. Sancisce di fatto la fine «politica» della sua presidenza e di tutte le istituzioni che, dall’Olp all’Anp, hanno accompagnato la storia palestinese. Lui, il burocrate della diplomazia pilotata, l’eterno numero due di Arafat succedutogli per consunzione, trascina nel baratro un devastato regime senza terra, ne disegna la triste eredità. Quella di una Palestina divisa tra un regno dell’oscurantismo e uno della corruzione, tra l’Hamastan di Gaza e la Fatahland di Cisgiordania. Lì, a Nablus, Ramallah e Jenin i militanti di Fatah scendono in strada, arrestano gli esponenti fondamentalisti, ne bruciano gli uffici. Ma è troppo tardi. O forse è solo l’inizio di una nuova fase della guerra civile.
Il presidente palestinese impone lo stato d’emergenza, s’impegna a convocare elezioni anticipate e a inviare una forza internazionale a Gaza, Ma Hamas lo liquida in poche parole: le sue decisioni sono prese «dietro pressioni americane e istaeliane», «nella pratica non hanno alcun valore».
A Gaza, Fatah è già annegata nella disfatta. Sulle sue roccheforti espugnate sventolano le bandiere verdi di Hamas. Nei palazzi saccheggiati, nelle strade insanguinate infuriano vendetta e umiliazione. Corrono in fila, le brache calate, le mani alzate: erano i signori di Gaza, gli uomini della Sicurezza preventiva, i fedelissimi di Dahlan. Ora tremano come foglie mentre i guerriglieri incappucciati li spintonano con i calci dei kalashnikov, li terrorizzano a colpi di raffiche nelle orecchie, gli infilano le canne roventi nelle reni. Ma sono ancora vivi. Possono sperare. A diciotto di loro è già andata molto peggio. «Li hanno trascinati nelle dune, gli hanno sparato in faccia», raccontano al telefono voci anonime di spettatori terrorizzati.
La mattanza conta almeno 18 militanti di Fatah su un totale di 21 cadaveri arrivati negli obitori in tutta la giornata. Ma sono cifre approssimative. A quel bilancio vanno forse aggiunte le vite di quattro bambini e di un adulto fatti a pezzi - dicono fonti palestinesi - da una granata sparata sulla loro auto da un tank israeliano intorno al valico di Rafah.
Tra i 18 miliziani sacrificati al dio della vendetta dopo la resa della Sicurezza preventiva il nome più eccellente è quello di Samih Madhoun. Qualche mese fa l’avevano messo alla testa di una forza speciale incaricata di contrastare l’ascesa delle milizie fondamentaliste. Aveva sotto di sé 1.500 armati disposti a tutto. Madhoun lo ricordava a ogni piè sospinto. Nelle interviste alle televisione di Fatah si vantava di uccidere con le mani i miliziani fondamentalisti, di bruciare le loro case. Non sapeva di firmare la sua condanna a morte. A emettere la sentenza, mentre l’assalto al quartier generale della Sicurezza preventiva e al palazzo dell’intelligence sono ancora in corso, ci pensa un imam fondamentalista. A eseguirla, con disincantato piacere, una banda di vincitori.
La storia di Madhoun è, in fondo, solo la punta dell’iceberg di odio che da oltre dieci anni divide la Sicurezza preventiva e i suoi capi da Hamas. Lì, nel palazzo della Sicurezza preventiva alla metà degli anni Novanta venivano imprigionati e torturati i militanti fondamentalisti accusati di mettere a rischio gli accordi di Oslo. Lì Mohammad Dahlan, allora a capo della struttura, e poi i suoi luogotenenti come Rashid Abu Shabak e Samir Mashrawi, umiliavano i capi fondamentalisti. Davanti a quel quartier generale, non a caso ribattezzato «palazzo dell’eresia», si consuma la fase più simbolica, crudele e barbara delle vendette. Una vendetta riservata ai più umili degli scherani, perché i desaparecidos Dahlan, Shabak, Mashrawi e molti altri «capibastone» sono fuggiti in Egitto e Cisgiordania aiutati, dicono quelli Hamas, dagli «amici israeliani».


«L’era della giustizia e del governo islamico è finalmente arrivata», annuncia il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri. «Questo - gli fanno eco i suoi compagni - è il primo passo verso la nascita di uno Stato islamico».

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