Hancock batte Beyoncé. Ora il pop alza il livello

A sorpresa il miglior cd è del pianista. Cinque premi a Amy Winehouse. Applausi a Bocelli

Hancock batte Beyoncé. Ora il pop alza il livello

Milano - Vedi quanto contano i dettagli: la cinquantesima edizione dei Grammy Awards si è aperta l’altra sera con un Frank Sinatra d’annata che da megaschermi in bianco e nero festeggiava la nascita del premio che poi è diventato l’Oscar della musica e il termometro del pop. Erano gli anni Cinquanta, adesso a guardare quel video lì in platea, in quella platea dello Staples Center di Los Angeles spazzata dall’aria condizionata polare che piace agli americani, l’altra sera la gente era vestita con gli agghiaccianti hot pants di Beyoncé oppure con le giacchette attillate come Justin Timberlake. E così, diciamocela tutta, dai Grammy ci si aspettava la solita passerella di siore e siori che prendevano il premio, scintillavano un po’ e poi via, avanti un altro.

E invece. Vedi i dettagli? Spiegano tutto. A prendersi il «grammofonino» più invidiato, quello per il miglior album in assoluto, è stato Herbie Hancock, un signor maestro che qui ha messo in saccoccia più applausi di Beyoncé, la gran sconfitta. Herbie Hancock è un pianista eclettico, una gran pasta di jazz, uno che usa come unica frontiera quella del talento e quindi va dove lo portano le convinzioni, mica le convenzioni. Stavolta ha rivestito a modo suo le canzoni di Joni Mitchell in River: The Joni letters, che la giuria dei Grammy ha votato come disco più bello del 2007, più bello, per dire, di quelli del post rapper Kanye West o del cinquantenne country Vince Gill. Risultato: platea ancor più gelata. Se per la prima volta da chissà quanto (45 anni, pare) il premio più goloso va a un artista jazz vuol dire che qualcosa sta cambiando e un’altra rivoluzione - forse la più attesa e vitale - sta rovesciando il campo della musica leggera.

D’altronde, basta respirare la musica che c’è sottovento. Dopo un decennio di rap feroce e un lustro di R&B miliardario, tutti cercano una svolta, i discografici e il pubblico, diviso tra under 30 che scaricano canzoni, spesso usa e getta, e ultraquarantenni che cercano sempre più la qualità perché in giro ce n’è sempre di meno, e oltretutto sono gli ultimi a comprare dischi palpabili e non liquidi come gli Mp3. Il presunto e disperato bisogno di novità, narcotizzato dall’industria con dosi da cavallo di musica purchessia, è invece bisogno di qualità, intesa nel senso letterale di algebra di talenti, grinta, comprensibilità, poesia. Perciò a vincere i cinque premi (rivelazione dell’anno, canzone dell’anno con Rehab, interprete pop femminile, album pop con Back to black e miglior emergente) è stata Amy Winehouse, senz’altro l’artista che, mescolando quelle cose là, ha ottenuto la somma più alta. E poi ci ha aggiunto, anzi ci ha spalmato sopra la sua vita privata, che è un disastro di dipendenze e amore, di fobie e incapacità di comunicare a microfoni spenti. Per festeggiare, non ha potuto neppure prendere un aereo per andare a Los Angeles perché gli Stati Uniti le hanno negato il visto a causa di pendenze penali. È appena uscita da una clinica di disintossicazione e metteva tenerezza l’altra sera, in videocollegamento da un club di Londra, mentre ringraziava papà e mamma, dedicava i successi al marito, al suo «Blake che è in galera», e poi cantava senza incepparsi, gli occhi spiritati, la magrezza ossuta sul volto. E allora, se con Herbie Hancock è la vincitrice dei Grammy Awards, vuol dire che il segnale è forte perché lanciato da un industria in grave difficoltà: cambiamo qualcosa, accidenti, altrimenti si va a fondo. E così forse va letta anche la standing ovation che ha accompagnato Andrea Bocelli mentre con Josh Groban ricordava Luciano Pavarotti cantando The prayer. «Sono qui per lui» ha detto, a conferma di un ideale passaggio di testimone ad altissimi livelli, da voce a voce, in nome della musica. Tutti in piedi, e chissenefrega degli hot pants.

Forse questa è la lezione che arriva dalla serata più importante della musica, quella che in poche ore pigia i bottoni rossi del pop prossimo venturo. Stavolta si punta alla laurea, non bastano più i diplomi di vendite e pazienza se qualcuno in platea rimarrà stecchito dal freddo.

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