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Hebron e quel voto ad Hamas: "Oggi non lo daremmo più"

Nella città di Abramo, molti rimpianti: «Che errore nel 2006. Ci hanno solo preso in giro. Avevamo creduto in riforme e cambiamento, ci hanno dato terrore e povertà»

Hebron e quel voto ad Hamas: "Oggi non lo daremmo più"

dal nostro inviato a Hebron

Nessuno, nella città di Abramo (e di Isacco, di Sara e Rebecca) ha mai sentito parlare di un proverbio palermitano a base di giunchi che si chinano quando passa la piena. Dunque dev'essere stata la saggezza dei Patriarchi, che promana dall'apposita Grotta dove secondo la tradizione sono sepolti i Profeti d'Israele, ad aver riverberato infine sulle decine di migliaia di scervellati che nell'inverno di tre anni fa, alle politiche, decretarono il trionfo di Hamas.

Una volta i futuri ministri e sottosegretari di quello che poi sarebbe diventato il primo ministro Ismail Haniyeh, oggi missing, si spintonavano sotto le telecamere dell'Europa e dell'America per guadagnarsi un minimo di visibilità. Oggi, anche solo trovare un portaborse disposto a parlare di quella dissennata euforia, o un quidam disposto ad ammettere di aver dato il voto alla cosca perdente di Gaza, devi girare con la pila (non essendo più tempo di lanternini).

Certo per molti, in una città ormai saldamente in pugno all'Anp, come testimoniano le gigantografie di Abu Mazen che ne sorvegliano i boulevards, e i poliziotti ingualdrappati di nero che giocherellano agli incroci con certi manganelli lunghi così, gioca la paura di ritorsioni. Degli israeliani e dei fratelli di Al Fatah. E però, più delle ritorsioni ha potuto la convinzione, cresciuta negli ultimi due anni, di aver riposto le proprie speranze nell'urna sbagliata. E non è neppure che tutti la buttino in politica, come l’imprenditore edile Mohammed Nasser Al Tamimi, che sventolando l'indice verso il cielo ricorda che l'islam «è contro la violenza». E che dunque i maggiorenti di Hamas, che a Gaza si sono guadagnati il palcoscenico cacciando quelli di Al Fatah a raffiche di mitra «non seguono la nostra religione, ma i loro interessi. Volevano il potere, esattamente come quelli di Al Fatah, ma almeno questi ultimi non avevano la faccia tosta di nascondersi dietro il Corano».

No, quelli di Hebron, prima città industriale e manifatturiera della Cisgiordania (il 70 per cento della lavorazione del marmo, il 60 per cento delle fabbriche di scarpe, il 36 per cento del prodotto interno lordo dei Territori occupati, ma anche il 40 per cento di disoccupati sul totale della forza lavoro) si sono disaffezionati al verbo di Hamas perché hanno visto la piega che il movimento ha preso. E non gli è piaciuta. Non è piaciuta agli industriali, ai commercianti, alla borghesia, ma anche al popolino che si è fatto due conti in tasca e ha visto che quando non si spara, e non c'è l'Intifada, si campa meglio e girano anche più palanche.

Sulla cornice che dà accesso alla città mi fermo a salutare Abu Shadi, proprietario della storica vetreria da cui i bicchieri escono ancora soffiati da vecchi mastri, passo per una filanda dove si confezionano keffiah e in una tipografia e ovunque vedo ordine, disciplina, ansia di normalità. Abu Shadi, che pure ebbe simpatia per Hamas, conferma. «Hebron è la città dell'altra Hamas, quella moderata - mi dice Abu Shadi lisciandosi i baffetti alla Fred Buscaglione -. Il mandato che noi cittadini di Hebron avevamo affidato ai candidati eletti puntava su due parole: cambiamento e riforme. Ed è finita con l'apparato di sicurezza di Hamas che ha preso il sopravvento, e dopo aver soppresso brutalmente gli oppositori di Al Fatah, come nelle guerre di mafia, ha stretto il pugno intorno alla gola della società civile».

Un colpo al cerchio e uno alla botte, come ci si attende da chi rappresenta i 250mila abitanti di Hebron, viene dal sindaco Khaled Osaily, 60 anni, uomo d'affari e vice presidente di una compagnia di investimenti che capitalizza 100 milioni di dollari. Indipendente, «ma certamente più vicino a Fatah che ad Hamas», Osaily è «contro ogni violenza» (di Hamas, leggi, ndr) «ma anche contro ogni embargo» (Israele che strangolava la Striscia). «Ma è una delle grandi tragedie palestinesi che Hamas non parli con Abu Mazen, che resta comunque il nostro presidente eletto».

Deluso, intimorito, tradito dai leader del partito («dove sono? Appena sono cominciati i bombardamenti hanno buttato via il telefonino, per non farsi intercettare e sono spariti come le talpe») si sente Nizzar Al Suleiman, fan della prima ora che l'ultima volta ha corso per le comunali. «Ormai - geme Nizzar, affranto davanti alle immagini in diretta che arrivano di Gaza - è un partito allo sbando, un gruppo che combatte per la sopravvivenza, in piena anarchia. Comandano i pistoleri che tengono sotto il loro controllo i quartieri. Ma non c'è più nessuno con cui parlare. Gente come Mahmoud Zahar, ma anche il primo ministro Ismail Haniyeh e il ministro dell'Interno Said Siam si stanno comportando come Osama Bin Laden e il suo braccio destro, Ayman Zawahiri. Le loro apparizioni pubbliche sono solo virtuali. Se devono dire una cosa registrano una cassetta e la fanno avere alle Tv arabe.

Ma io non ho votato per Bin Laden».

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