Henriquet, il santo laico di Genova

(...) le notizie scomode che abbiamo dato in perfetta solitudine o prima degli altri. L’abbiamo detto, anche con parole di carta vetrata.
Allo stesso modo, con il massimo di onestà intellettuale di cui sono capace, però, non posso non riconoscere che, in mezzo a queste scelte, ce ne sono di ottime. Sarebbe sbagliato e ingeneroso non riconoscere il valore di colleghi come Gigi Leone e Roberto Onofrio; lo sforzo culturale di Claudio Paglieri; l’ottimo lavoro rispettivamente sul Basso Piemonte e a Savona di Vittorio De Benedictis e Roberto Sangalli; le doti umane di Paolo Cavallo. E potrei citare tanti altri colleghi di piazza Piccapietra. Pronto a criticarli, anche gli amici, ogni volta che non sarò d’accordo con loro.
In questo quadro, ieri, ho invidiato Il Secolo. Perchè ha pubblicato un articolo, dolce e delicato, sulla morte dell’«uomo senza volto», il clochard che amava scrivere poesie e che tutti evitavano a causa del male incurabile che gli aveva completamente deturpato la pelle. Una storia degna del primo David Lynch, dei numeri più belli di Dylan Dog, di una canzone come Il mostro di Samuele Bersani. Una storia capace di svelare la dolcezza e la poesia che sanno esserci dietro l’apparenza, la bellezza interiore di chi viene bollato come freak.
Per di più, in questo racconto di un uomo che aveva il suo nido nella stazione di Sampierdarena e, ormai, gli annunci degli altoparlanti nel Dna, si intersecano altre belle storie. Gli uomini della Polfer di Salvatore Genova sono stati la vera famiglia di Marco, «l’uomo senza volto», fino all’ultimo, quando ha chiesto loro: «Sto male, potete far venire un’ambulanza? Vi ringrazio».
In quel momento, secondo il bel racconto di Marco Fagandini e Simone Schiaffino, è entrato in scena un santo. Un santo laico, Franco Henriquet. Che l’ha immediatamente accolto , come accoglie tutti. Fino alla sua ultima poesia: «Quando le mie membra giaceranno senza vita/e l’ombra della morte avrà serrate le mie palpebre/Quando i miei capelli più non si scompiglieranno allo spirare de’venti/le tue parole mi frantumeranno come cocci di mattone/e il silenzio del tempo scandirà l’infinito». Senza volto, con il cuore.
Con lo stesso cuore del papà della Gigi Ghirotti, che non guarda in faccia nessuno. Non perchè anche lui avesse paura della faccia di Marco, anzi. Ma perchè Henriquet e tutti i suoi collaboratori - a partire da Piero Randazzo - non chiedono carte d’identità, non chiedono conti in banca, non chiedono tessere politiche. Aiutano tutti, anche a costo di finire sotto processo proprio per questo.
Marco, quindi, ha trovato un letto e un abbraccio, tutti i giorni, nell’Hospice della Ghirotti all’ex ospedale Pastorino a Bolzaneto. Fino alla fine.

Con la compagnia più dolce: quella di un santo laico come Franco Henriquet e la sua compagnia di serafini e cherubini della sanità. E quella del suo cuore, che la sua poesia fotografa meglio di ogni parola.
Ecco, per questa storia, ieri, per una volta, una volta sola, ho invidiato un po’ il Secolo.

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