Igor Principe
«Quella faccia un po' così, quell'espressione un po' così». Ti viene in mente Paolo Conte e quei suoi sodali piemontesi che hanno visto Genova, e non se la sono scordata più. Roberto Herlitzka potrebbe essere uno di loro: a dispetto del cognome, è nato a Torino. Ma nel suo caso la musica lascia spazio al teatro, e a un attore che anche grazie a quella faccia un po' così ha scritto pagine importanti di quest'arte. Malgrado la posizione defilata.
«Per me è sempre stato un mestiere difficile - racconta -. Ho lavorato soprattutto in compagnie alternative perché ho una fisionomia che non si sceglie facilmente. I teatri stabili non mi hanno mai corteggiato, forse l'unico è proprio quello di Trieste. Ne sono grato ad Antonio Calenda, ma credo che anche lui sia grato a me per il lavoro svolto insieme. E comunque, ho sempre pensato in modo individuale: se mi offrono una parte che mi piace, la accetto».
Herlitzka parla con semplicità e ironia, portando nel dialogo due elementi che caratterizzano il Re Lear di cui è protagonista al teatro Strehler da questa sera, per la regia di Calenda e la produzione del teatro Stabile di Trieste. Dalla traduzione di Agostino Lombardo il testo esce come un albero potato a regola d'arte, privo di quei fastidiosi barocchismi che scimmiottano la lingua di Shakespeare ma integro nella pregnanza dei suoi significati.
«Il testo è calato in un'epoca senza tempo, secondo l'insegnamento di Beckett - dice l'attore -. Un'idea che ho ritrovato in altri lavori con Calenda, in particolare sulle tragedie antiche. Tra tutte, ricordo un Prometeo. Questo approccio mi è molto di aiuto, perché io non sono un attore eroico e non amo quella mediazione pittorica che viene non solo da un certo testo, ma anche da certe scene e certi costumi. A me piace essere più immediato».
Questo allestimento, che da oltre un anno gira in Italia riscuotendo ovunque un deciso consenso, sembra tagliato su misura di Herlitzka. Nella Britannia di Lear non esistono uniformi, velluti o ermellini reali. Tutto è semplice e monocromo, quasi a voler lasciare spazio ad ogni parola per far sì che cada in platea con tutto il suo peso specifico. Anche quello dell'ironia di cui s'è accennato.
«È parte del mio carattere, la rivedo quindi nel mio personaggio e anche in me stesso - spiega -. Se ne fa un uso abbastanza costante, e questo ci aiuta a escludere tutta la parte estetizzante del testo. Ma, com'è noto, in Shakespeare ciò non è una novità. Ci sono battute anche nei momenti più tragici, messe lì con il deliberato intento di far ridere. Non dimentichiamoci, infatti, che l'autore ha scritto tragedie borghesi, dove le posizioni personali e le questioni che allo spettatore paiono gigantesche si ridimensionano in una dimensione vicina a quella del quotidiano».
Ogni personaggio di Shakespeare, consapevole o no, si trova dunque a fare i conti ogni giorno con le grandi domande. Lear trova risposte che lo conducono sulla strada del ravvedimento, e che gettano sulla cupezza della vicenda un fascio di luce. «Il re è pazzo - spiega Herlitzka -. Ma attraverso la sofferenza scopre in se un'umanità che non sapeva di avere. Quando è nudo nella tempesta, il primo pensiero va a quei poveretti che vivono quella condizione sempre. C'è un ravvedimento che emerge tra omicidi e tradimenti sconfiggendo il pessimismo, il senso di sconfitta diffuso in questa storia».
Domani Antonio Calende e alcuni degli attori (Daniela Giovannetti, Luca Lazzareschi e Roberto Trifirò) incontreranno il pubblico per approfondire i temi dello spettacolo e parlare dei propri personaggi (ore 17, alla Scatola Magica del teatro Strehler).
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