Milano - Più di 16mila volumi. Alcuni rari, molti probabilmente mai letti, altri compulsati con foga, sottolineati e risottolineati con rapidi tratti a matita, glossati con punti di domanda e punti esclamativi, con tormentate chiose. Di che cosa parliamo? Della biblioteca privata di qualche grande intellettuale? Che so, un Voltaire, un Kant, un Croce?
No. Questa sterminata distesa di libri, con i suoi milioni di pagine, è appartenuta a un ex caporale bavarese divenuto Führer di Germania: Adolf Hitler. E non deve stupire che l’uomo che ha condannato al rogo centinaia di titoli passasse ore e ore tra migliaia di tomi. Lui stesso una volta disse di sé: «Quando una persona dà, deve anche prendere e io dai libri prendo quel che mi serve». Molti altri dittatori hanno fatto altrettanto, rinforzando l’aura mitica del leader proprio a partire da una cultura enciclopedica (per lo più soltanto ostentata) che marcasse la loro diversità, la loro superiorità. Questo con buona pace di chi crede che sia solo l’ignoranza a creare la violenza e che, nella migliore delle ipotesi, bastino cospicue letture a eliminare l’ignoranza.
Così, leggendo il recentissimo La biblioteca di Hitler (Mondadori, pagg. 264, euro 19) di Timothy W. Ryback, penna del New Yorker e studioso della Shoah, si compie un interessante viaggio nella mente e nella storia personale di un uomo che è considerato da molti l’incarnazione del male assoluto. I libri, infatti, almeno quei 1200 volumi sopravvissuti al crollo del Terzo Reich, sono come orme lasciate sulla sabbia. Consentono, seppur con lacune, di ricostruire il percorso che ha trasformato un giovane pittore mitomane, scaraventato nel Maelstrom della Prima guerra mondiale, prima in un agitatore politico antisemita, e poi nell’artefice della più grande carneficina del ’900. Si scopre che il caporale baffuto, a pochi chilometri dal fronte, leggeva libri d’arte come Berlin di Max Osborn, e che molte delle sue idee sul bello sono nate da lì. Che amava Don Chisciotte, Robinson Crusoe, La capanna dello Zio Tom, e che si faceva trasportare dalla forza drammatica di William Shakespeare, preferendolo a Goethe e a Schiller.
Purtroppo, alternava queste letture con il pamphlet antisemita di Henry Ford The International Jew: the World Foremost Problem. E a partire dal 1931 gli capitò di trascurare la necessità di rafforzare la propria cultura da autodidatta, che rischiava sempre di metterlo in crisi, per interessarsi a un manuale sui gas tossici con un intero capitolo dedicato allo Zyklon B, che diventerà tristemente famoso per l’impiego che se ne fece nei lager.
Verrebbe da dire parafrasando Hannah Arendt: ecco la «culturalità del male», il male che nasce in biblioteca. Il male nutrito a suon di libri. Il discorso potrebbe avere un senso. Anche Stalin aveva un’enorme biblioteca privata, come ci ha raccontato lo storico russo Boris Semenovic Ilizarov nel suo Vita segreta di Stalin. Le letture, il profilo psicologico e intellettuale (Boroli). Il georgiano possedeva oltre 20mila volumi, anche per lenire il proprio complesso d’inferiorità nei confronti di Lenin. Il Batiuska (piccolo padre) si faceva portare cataste di libri. Gli piaceva tutto, tranne quella che lui (ex seminarista) chiamava «cartaccia antireligiosa». E tra tutte queste letture, sottolineature, punti di domanda, misteriose «t», commenti a margine (come un «Ah! Vacci a capire» a proposito di Anatole France), frasi sottolineate tra cui: «Ci sono persone che hanno più paura del non essere che dell’inferno».
Non era da meno un altro dittatore: Pol Pot, al secolo Saloth Sar. Per quanto volesse sterminare ogni cambogiano in grado di parlare una lingua straniera, da buon benestante, dopo coscienziosi anni trascorsi nella religiosissima Ecole Miche dilettandosi con la Bibbia, aveva studiato in Francia, dove aveva sviluppato enorme ammirazione per le opere di Sartre. Ma anche il meno pretenzioso Salah Eddine Ahmed Bokassa divorava biografie napoleoniche, tanto da volersi far incoronare nello stesso stile del suo eroe còrso (per la modica cifra di venti milioni di dollari che polverizzarono le casse della Repubblica Centrafricana).
Anche se in effetti tutti questi signori potrebbero apparire dei dilettanti nei confronti di Kim Jong-il, «Caro leader» nord-coreano. Nella sua biografia ufficiale si legge (oltre ad altre amenità) che, appena arrivato all’università, il compagno Kim «si prefisse l’obiettivo di salire sulle vette della scienza moderna e dello scibile umano». E poco importa che fonti, meno tendenziose, sottolineino il fatto che l’unico campo dello scibile di cui sembra essere veramente esperto siano i film western. Kim non si offenderebbe: infatti ha scritto due trattati, uno Sull’Arte del cinema e uno Sull’arte dell’opera. E se Hitler, pur amando Shakespeare, si limitava a «innocui» acquerelli, Kim «imita» il bardo di Stratford producendo opere teatrali come Il mare di sangue o Il destino di un membro dei corpi di autodifesa.
Nonostante tutto, nonostante l’interesse storico (e forse criminologico) che rivestono le biblioteche o le cineteche di questi leader sanguinari, le radici del male restano inconoscibili. Non si possono ridurre a una sequela di libri o di note. Basti dire che Idi Amin Dada, il quale si conferì il titolo di «Sua Eccellenza il Presidente a vita, Feldmaresciallo...
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