
«Lei oggi mi vede chic, ma io amo l'assoluta semplicità...». Giovanna Cavazzoni è nella sede milanese di Vidas, l'associazione che ha fondato 33 anni fa per dare una assistenza socio-sanitaria completa e gratuita ai malati terminali. Gli uffici sono in corso Italia, a due passi da via Crocifisso, dove è nata e cresciuta 84 anni fa e dove a cinque anni fece un capriccio «profetico»: «Passeggiavo con mia madre e si mise a piovere a dirotto. In strada era rimasto un mendicante, tutto accovacciato, per muovere la gente a pietà. Io corsi da lui e mi piegai a terra. Non volevo muovermi. Mia madre mi gridò: “Sei pazza?”. Risposi: “Io sto con lui”. Il leit motiv di tutta la mia vita».
Da poco tempo è diventata presidente onoraria di Vidas: come mai?
«Ho lasciato la carica di presidente ad aprile, per stra-raggiunti limiti di età».
Non le dispiace?
«Assolutamente no. Anche perché il destino mi aveva messo su un piatto d'argento un successore degnissimo, Ferruccio de Bortoli».
È contenta della scelta?
«Felice. E poi, in fondo, nella mia vita non è cambiato granché. Vede, l'impegno istituzionale richiede il 10-12 per cento del tempo dedicato a quel ruolo».
E nel resto del tempo il presidente che cosa fa?
«La ricerca fondi, che è il lavoro più brutto del mondo».
Il suo...?
«L'80 per cento del mio tempo è stato dedicato a questo. Da 33 anni lavoro otto-dieci ore al giorno, sabato e domenica compresi, completamente gratis. Detesto i soldi. Siamo partiti nell'82 senza un centesimo. Però avevo volontà, esperienza e professionalità: avevo già cinquant'anni e da anni lavoravo come consulente di immagine e anche con un mio studio di pubbliche relazioni qui a Milano».
È stato difficile all'inizio?
«La stampa toccava ferro quando entravo nelle redazioni. Le parole “Assistenza gratuita al morente” spaventavano. Ed erano rifiutate da una società che aveva messo questi principi dietro le quinte».
Ma perché a 50 anni ha cambiato vita?
«Mi sono come risvegliata. E mi sono chiesta: ma dove mi trovo, nel mio percorso? Così è riemerso, potente, il ricordo di una promessa fatta da me a 16 anni, quando morì Rina Torricelli, una donna che avevo accompagnato per due anni, il tempo della sua fase terminale di cancro».
Chi era?
«Una corista della Scala, amica di mia madre. Abitava anche lei qui dietro, in via Rugabella, in un mozzicone di casa distrutto dalla guerra. Mia madre le pagava il medico e l'infermiera, ma non andava a visitarla: perché il malato grave fa paura».
E perché si prese cura di lei?
«Mi aveva incoraggiato a studiare canto al Conservatorio, ne ero affascinata. In ogni momento libero correvo da lei. L'idea di Vidas è nata allora».
Come?
«Annotavo tutti i suoi bisogni. Così, per esempio, capii che il medico non deve stare in piedi, bensì vicino al malato. Altrimenti non si crea la confidenza necessaria perché il paziente ponga quella benedetta e unica domanda che gli frulla in testa la notte: “Dottore, quanto tempo mi resta”? È una domanda che tutti i malati gravi si fanno».
Tutti?
«Tutti. E si guardano le mani perché sa, quando ormai sono costretti a letto non hanno uno specchio: e così dalle mani sempre più pallide, sempre più scarne e scheletriche vedono come stanno davvero... Sono le mani il loro specchio».
Che altri bisogni aveva annotato?
«L'infermiera era bravissima, ma troppo veloce, mi sembrava una prestigiatrice: anche lì, mancava la mano sulla spalla, la carezza, la parola affettuosa. I segni della condivisione del cuore».
E qual era la promessa che fece?
«Alla morte di Rina mi dissi che, da adulta, avrei dato vita a un'opera, anche piccola, di assistenza a questi malati. Un seme, che sarebbe rimasto sottoterra fino all'82, quando ho fondato Vidas».
Oggi l'associazione cura 1.600 pazienti ogni anno e ha un budget di 8 milioni, ma come ha fatto a raccogliere i primi finanziamenti?
«Cominciai con le amiche e le compagne della giovinezza, fra quelle più portate. Qualche cena, vecchi amici che portavano altre persone generose... un lavoro di gran promozione».
Una mano è arrivata anche dal mondo della musica.
«Sì, parlai di questo progetto col mio ex marito, Claudio Abbado. Lui disse: “Mi piace molto il senso di giustizia”. Negli anni, ha diretto per Vidas oltre dieci concerti».
Altri musicisti vostri sponsor?
«Tanti. Uto Ughi, Maurizio Pollini, Riccardo Muti, Carlo Maria Giulini, Isaac Stern, l'elenco sarebbe lunghissimo. Il 15 settembre, qui a Milano, ci sarà un concerto di Goran Bregovich».
Come ha conosciuto Abbado?
«In Conservatorio. Il primo appuntamento me l'ha dato in Duomo, era il '53. Arrivo, tutta emozionata, e lo trovo col naso all'insù che mi dice: “Secondo te, quanto è alto l'interno? Perché, stavo pensando, se lo tagli a metà, quanti campi da tennis ci starebbero?”».
E lei?
«Ero raggelata.Sarei dovuta fuggire, invece lo portai sulle guglie, al tramonto. Poi davvero sono fuggita da lui: sono andata per un anno a Zurigo a studiare liederistica».
Però l'ha sposato, e avete avuto due figli.
«A un certo punto vinsi un concorso da solista e, incautamente, per un po' di orgoglio, gli telefonai e gli dissi: “Anch'io sono un po' bravina”. Dopo sette ore era a Zurigo, a farmi la proposta di matrimonio. Mi diede dodici ore di tempo per rispondere».
E che cosa ha fatto?
«Il potere diabolico di quest'uomo... Lui si era messo in testa: “Giovanna non canterà”. E io il giorno dopo feci la valigia e mi presentai a casa di mia madre, a Milano. Aprì la porta e le dissi: “Mi sposo”. E lei: “Chi è? Il giovane Mozart?”».
Dopo quanto vi siete sposati?
«Due settimane. In seguito l'ho spinto molto, prima per andare a Siena e poi a Vienna. Siena fu fondamentale, perché all'Accademia conobbe Zubin Mehta e diventarono amici: nelle ore libere andavano in giro in macchina a sparare con le pistole d'acqua alle gambe delle ragazze. Si rende conto? Io mi chiedevo: ma questo è un matrimonio?».
Lo era?
«L'amore è cieco... Comunque, Mehta lo convinse ad andare a Vienna e fu una grande fortuna per lui, studiare con i grandi direttori di allora. Però eravamo senza soldi».
Come avete fatto?
«Mia madre gli fece ottenere una borsa di studio dal ministero, grazie al suo curriculum. Poi anche io ottenni una borsa di perfezionamento in liederistica. Vivevamo in un corridoio, non c'era neanche lo spazio per affiancare i due letti; però ci stavano il pianoforte, un cassettone e il bollitore per scaldare la cena. Era una vita molto bohémienne».
Dopo quanto vi siete separati?
«Dopo una decina d'anni. Eravamo già tornati a Milano. I primi sette-otto anni erano stati davvero faticosi, gli facevo promozione in tutti i modi. A un certo punto vinse un concorso molto importante a New York: la svolta. E dopo che l'ebbe vinto mi disse: “È finita”».
Non si è infuriata? Non ne parla nemmeno con astio.
«Mi stava venendo un infarto. Ma vede, mi hanno insegnato quello che ha detto Gesù: “Ama il tuo prossimo come te stesso” anche quando ti fa soffrire. Il dare e chiedere perdono sono valori che mi porto dentro».
Chi glielo ha insegnato?
«Mio padre Stefano. Era arrivato a Milano poverissimo, dall'Emilia, con due carri di masserizie. Lavorava come garzone da un pollivendolo e studiava di notte. Nel quartiere aiutava tutti, dedicava il suo tempo libero a chi aveva bisogno, agli anziani: aveva un istinto sociale, di giustizia. A 23 anni era diventato il più giovane consigliere comunale della città. “I soldi”, diceva, “in un modo o nell'altro finiscono per avvelenare la vita.” Volle addirittura lasciarci poveri, ma con una bella ricchezza interiore».
Che cosa pensa dell'eutanasia?
«L'attaccamento alla vita è sempre così forte, anche quando senti che di vita te ne rimane poca... Se possibile, in questi casi è ancora più forte. Magari abbiamo ricevuto qualche richiesta, ma solo prima di entrare nei nostri hospice: in realtà sono domande di affetto, di aiuto. I nostri medici non staccano mai la spina».
Ma lei ha paura della morte?
«No no. Anzi, la aspetto. So che presto arriverà. Ma non ho nessuna paura. Ho solo gratitudine, e tanta, per quello che la vita mi ha dato. E anche per quello che mi ha tolto».
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