«Ho consegnato la Coppa... temevo arrivasse Magath»

Dalla débâcle del 1983 ad Atene contro l’Amburgo al successo sul Liverpool nella tragica notte dell’Heysel nel 1985 E poi l’addio alla sua Juve nel 1987

«Ho consegnato la Coppa... temevo arrivasse Magath»

C’era il Milan. C’era il Liverpool. C’era Atene. C’era maggio. C’era Michel Platini. Tutte queste cose assieme, in una sola sera, tratte dal diario di una carriera. Vent’anni dopo, lui, il nuovo presidente dell’Uefa, ha consegnato la coppa al vincitore, Paolo Maldini, un simbolo, l’icona del football italiano, europeo, mondiale e ha anche scherzato: «Ho voluto farlo prima che Magath me la portasse via, ho dovuto farmi eleggere presidente dell’Uefa per alzare questa coppa al cielo qui ad Atene e sono felice che il Milan sia campione, con i gol di un italiano, di un campione del mondo».
Appunto, la memoria di una carriera e di un calciatore. Accadde ad Atene, il venticinque maggio del 1983 e Felix Magath sgonfiò una Juventus di tanti galli trasformati in polli. Erano sei i campioni del mondo in campo (come il Milan di ieri) Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli, Rossi più quei due fenomeni stranieri, Boniek e Platini. Non servirono, l’Amburgo operaio sistemò la faccenda, un gruppetto di giornalisti italiani, niente affatto juventini, festeggiò la gufata offrendo al match winner una medaglia d’oro a ricordo e riconoscimento dell’impresa.
Il sole di Grecia fece il resto, il conte Cavalli d’Olivola, accompagnatore ufficiale della squadra, commentò alla piemunteis il verdetto: «L’è nèn roba per nui auti», non è roba per noi altri. Atene venne dimenticata ma non del tutto.
Liverpool è memoria cattiva, la notte della tragedia e della morte, l’Heysel e maggio, sempre questo mese ambiguo delle rose e delle spine, un gol su rigore celebrato in maniera eccessiva, ossessiva mentre il sangue era lì, accanto, intorno, dentro e da allora Platini non ha mai più voluto mettere piede, testa e cuore in quello stadio del Belgio.
Il Milan poi, avversario ma anche amante perchè non tutti sapevano e sanno che ci fu una sera in cui Silvio Berlusconi convocò, in una delle sue dimore lombarde, Michel Platini ancora bianconero. Il francese di Agrate Conturbia arrivò a Milano guidando una Panda 4x4, Bruno Bogarelli gli fece da badante verso il presidente, il colloquio verteva sul lancio de La Cinq, il canale televisivo che Berlusconi stava per aprire in Francia tra gli ostacoli chauvinisti di Chirac allora sindaco della capitale. Platini sarebbe stato un testimone ideale, così fu nella presentazione ufficiale, in smoking, scendendo le scale tra le paillettes. Ma Berlusconi osò di più, un’offerta di lavoro al Milan, in squadra ovviamente, senza molestare troppo l’Avvocato che con Platini aveva stabilito un rapporto privilegiato: «Lo abbiamo preso per un tozzo di pane lui ha messo il foie gras», aveva spiegato il padrone della Fiat e della Juventus. Michel Platini accettò la marchetta televisiva ma fu «costretto» a rifiutare l’avance rossonera, così come quella della Sampdoria e del Marsiglia.
E fu di maggio, ancora, l’ultima partita in campionato, in Italia, la chiusura di tutto, il giorno diciassette del 1987, contro il Brescia, sotto la pioggia acida di Torino con un semplice striscione dei mosci tifosi juventini: «Grazie Michel».


Vent’anni dopo, con qualche chilo in più e la stessa faccia di sempre, guascone e sorridente, monsieur le president ha consegnato all’Italia quello che a Cardiff ci era stato tolto e Michel ha rivisto e rivissuto, come in filmino amatoriale, girato con la pellicola super 8, una fetta di carriera e insieme di vita, Atene, il Milan, il Liverpool e maggio. La storia del calcio è storia di uomini e di ricordi. Nessuno potrà cancellarla.

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