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"Ho creato Greg e la Pellegrini ma non garantisco il bis"

Da 17 anni guida la Federazione nuoto: «La politica non crede nello sport. Di questo passo non avremo più né campioni né orgoglio»

"Ho creato Greg e la Pellegrini ma non garantisco il bis"

A separarli sono l'età e la barba. Per il resto, s'assomigliano. Stessa passione, stessa società, stesso sport: il nuoto. Identico persino il desiderio forte di dedicarsi ad altro una volta conclusa l'attività agonistica. Uno è diventato attore e altrimenti si arrabbiava guidando Dune Buggy e purtroppo adesso non c'è più. L'altro, dopo aver appeso il costume al chiodo, ha indossato la giacca ma non sempre la cravatta, e anche lui, a volte, altrimenti s'arrabbia. Però non guida Dune Buggy. Da diciassette anni è al volante di ben altro: la federazione sportiva italiana più vincente nel mondo «e non dite più ricca perché non è vero», s'infervora e allora è meglio assecondarlo. Dell'indimenticato Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer, primo azzurro sotto il minuto nei 100 stile, Paolo Barelli, 63 anni, ha la mole, il vocione, lo sguardo che altrimenti s'arrabbia e le mani grandi che se muove un braccio per guardare l'ora sembra voglia mollarti un ceffone. Anche per questo i suoi atleti danno l'anima per non deluderlo. Si sa mai. Può piacere o non piacere Barelli, perché è uomo non semplice. «A chi governa dà fierezza ascoltare l'inno di Mameli durante olimpiadi e mondiali?» sbatte la mano sul tavolo. «Sì? No? Lo dicano! Perché se la risposta è sì, allora bisogna darsi da fare. E subito. Lo sport italiano sta male. Le società sportive stanno morendo». Nell'attesa di una risposta, lui fa parlare i suoi molti figli sportivi. Con le medaglie. Si chiamano Massimiliano Rosolino, Domenico Fioravanti e Alessia Filippi, si chiamano Federica Pellegrini, Gregorio Paltrinieri, Gabriele Detti e Filippo Magnini; si chiamano Tania Cagnotto e Francesca Dallapé e Settebello e Setterosa e nuoto sincronizzato.

Pieno di ori, argenti e bronzi, il nuoto italiano pare il deposito di Paperone.

«Il medagliere dice che siamo leader in tutte le discipline. Ai mondiali di Budapest abbiamo chiuso con 16 medaglie».

Per i suoi atleti lei è il Presidente. Sanno che ha fatto due finali olimpiche?

«Questo è il problema mio».

Allora raccontiamo l'ex atleta.

«Venti titoli italiani, 23 primati, un bronzo mondiale nel '75, in mezzo a due finali olimpiche: Monaco '72 e Montreal '76».

Neppure del bronzo sanno i ragazzi?

«Solo alcuni. Gli altri lo scopriranno leggendo il Giornale».

Anche Bud Spencer, dedicandosi ad altro, fece scordare il passato di nuotatore e pallanuotista d'alto livello. Che rapporto aveva con lui?

«Per me è sempre stato Carlo, non Bud. Era uno di famiglia. Avevamo un legame di complicità basato sull'esperienza, la semplicità e la passione che ha sempre trasmesso ai giovani. Nel 2014 festeggiò 85 anni al Centro federale di Ostia con noi e le nazionali riunite. Resterà un esempio per tutti... E con i suoi film ha fatto sorridere e riflettere intere generazioni».

Diceva della sua medaglia mondiale.

«Paolo Barelli, Roberto Pangaro, Marcello Guarducci, Claudio Zei...».

Cita a memoria come una poesia.

«Bronzo nella staffetta 100 stile libero».

Prima medaglia maschile nella storia dei mondiali. Però, perdoni, solo bronzo, lei oggi s'arrabbierebbe.

Sbatte due dita sul tavolo. «Guardi che sono cambiati i tempi e i livelli». Dal passato riemerge l'atleta. «Noi eravamo artigiani. Oggi è tutto più professionale e complicato. Però, all'epoca, arrivare a una finale olimpica o mondiale e salire sul gradino basso del podio rappresentava un successo incredibile. Pensi che per l'Italia quelli di Monaco 1972 furono i Giochi di Novella Calligaris: vinse un argento e due bronzi. Eppure, oggi, voi ci critichereste se la nostra spedizione tornasse con un simile bottino... Siete abituati troppo bene».

Monaco '72 fu l'olimpiade di Settembre nero, dei terroristi palestinesi, degli atleti israeliani massacrati.

Si lascia andare sullo schienale. Prende fiato. «Non dimenticherò mai quel giorno. Era la notte tra il 4 e il 5 settembre. Eravamo a un passo da loro. La palazzina della squadra italiana era vicina a quella israeliana. Le delegazioni erano state disposte in ordine alfabetico. I due edifici erano collegati da una via carrabile sotterranea e un camminamento pedonale di superficie. Quando dalla mia stanza vidi arrivare la polizia tedesca in assetto, compresi che le olimpiadi erano finite all'inferno. Provai a sbirciare in direzione della palazzina israeliana. Scorgevo le finestre. Dentro, i fedayyin stavano per massacrare ragazzi come me. Ho assistito impotente alle grida e al pianto di dolore e paura dei dirigenti e degli altri atleti israeliani».

Fu la fine del sogno olimpico.

«Sì. E mi è rimasto addosso il prima e il dopo. Il prima senza controlli e il dopo, da Montreal '76 in poi, le olimpiadi per sempre militarizzate. A Monaco, nel villaggio, a separarci dal mondo c'erano delle semplici reti. I terroristi le avevano scavalcate esattamente come fanno i ragazzi quando il pallone finisce nel giardino dei vicini. Erano entrati sotto gli occhi incuranti di alcuni atleti, raggiungendo indisturbati e armati l'edificio degli israeliani. È incredibile come fu semplice. D'altra parte, in quei giorni io stesso avevo amici che senza permesso entravano e uscivano dal villaggio venendomi a trovare di nascosto»

Quanto conta essere stato un atleta per guidare bene una Federazione?

«Aver gareggiato per quindici anni non è l'elemento sufficiente. Su tutto contano dedizione e la capacità di far squadra».

Formazione.

«Prima responsabile comunicazione e marketing per un'azienda di articoli sportivi, poi consulente in una società di cacciatori di teste, ora imprenditore nel ramo immobiliare, quello di famiglia». Sbatte la mano sul tavolo. «E dato che son matto, una vita dedicata al nuoto e al cloro».

E alla politica.

Si accomoda meglio sulla sedia. «Mi ci sono avvicinato da laico, diciamo da tecnico. Appena uscito dall'acqua, era il 1984, entrai in Federnuoto. Nell'87 ne divenni il vice presidente, dal 2000 presidente. Ma già a fine anni '70 avevo fondato l'Aurelia Nuoto. Nel 1999 mi chiesero di fare l'assessore allo Sport, Turismo e Spettacolo della Provincia di Roma. Da lì, poi, la candidatura al Senato nelle fila di Forza Italia e del Popolo delle libertà. Tre legislature».

Il suo nome tra i possibili candidati alla presidenza delle Regione Lazio.

«Sento parlare. Al momento sono solo voci. Nel centrodestra si sta ragionando su vari nomi. Ringrazio chi pensa a me. C'è stima. Fiducia. Mi fa piacere».

Silvio Berlusconi?

«Ricordo con immenso piacere un viaggio in aereo con lui, nel 2000. Grazie ai legami con la comunità ebraica di Roma avevo organizzato la visita del leader dell'opposizione in Israele. Fu un'esperienza importante. Indimenticabile».

Matteo Renzi?

«C'è stima. Ci siamo conosciuti nel 2011, era sindaco di Firenze, organizzammo la World league nella sua città».

Quindi tutto bene anche con il suo delfino, Luca Lotti, ministro dello Sport.

«Sì, al di là della posizioni politiche, sono entrambe persone moderate».

Si dice che in Forza Italia sia stata apprezzata la sua coerenza. Mai uno sbandamento.

«Perché ritengo la coerenza un valore importante. Soprattutto in un'epoca tormentata come questa. E poi, vede, il mio coinvolgimento politico non è mai stato per convenienza o spinto da questioni personali, tanto meno economiche. È una passione rimasta inalterata negli anni come l'amicizia con Antonio Tajani».

E se venisse candidato alla Regione? Come farebbe con la Federnuoto?

«L'impegno politico, se parlamentare, può collimare con altri incarichi. Ma ci sono situazioni che non sarebbero compatibili. Vediamo. Intanto sono voci».

I molti attriti con il presidente del Coni Giovanni Malagò.

«Le questioni in sospeso sono state chiarite dai fatti. Oggi non ho problemi con nessuno, tantomeno personali con Malagò. Spero che non li abbia lui con me e che faccia al meglio gli interessi dello sport italiano visti i molti problemi».

E gli attriti fra i suoi due più grandi campioni: la Pellegrini e Paltrinieri. Fede aveva messo in dubbio la correttezza del premio al miglior allenatore 2017 assegnato a Morini, tecnico di Greg. Le parole di Federica sono finite davanti alla procura federale.

«Che ha deciso per l'archiviazione. Lei era stata eccessiva, però non c'era stata un'infrazione disciplinare. L'enfasi che ha avuto questa vicenda dimostra come uno sport che era di nicchia sia diventato globale. Questi ragazzi sono personaggi al pari dei campioni del calcio».

A proposito: Italia fuori dai mondiali.

«Non voglio dare giudizi su altri sport e altre federazioni, dico solo che io ho combattuto, anche a livello di commissione Ue, una dura battaglia per difendere la pallanuoto italiana dall'invasione di giocatori stranieri nei nostri campionati».

E ora l'Italia è la sesta potenza mondiale nel nuoto.

«Un miracolo frutto dell'impegno, ma è dura se non cambierà qualcosa».

Italia nel G-7 con Usa, Cina, Russia, Francia e Inghilterra. Come si creano una Pellegrini o un Paltrinieri?

«Grazie al dna acquatico dei loro genitori. Poi la loro volontà. E un sistema. Lo chiamo sistema di emulazione e partecipazione progressiva dalla base al vertice. E con delle piccole olimpiadi che organizziamo due volte l'anno...»

Olimpiadi?

«Sì, i campionati nazionali giovanili. Attraverso le selezioni regionali, ci arrivano tutti i migliori atleti delle società sparse sul territorio. Curiamo ogni dettaglio. Il nostro è un sistema societario inserito però nei programmi federali: cioè tutti, intendo atleti, tecnici e dirigenti, sono spinti a migliorarsi sentendosi partecipi a livello nazionale. E scatta un processo di emulazione che li fa crescere».

Così quando spunta un talento lo affidate ai vostri allenatori federali.

«Sbagliato. Da noi non esiste il concetto qui ci sono le società agonistiche e qui la federazione, l'atleta è bravo e allora me lo passi e arrivederci e grazie. Si collabora tutti a un progetto di vertice. Ai grandi eventi internazionali ci sono i tecnici societari al seguito dei propri atleti che indossano la casacca della nazionale come gli allenatori federali. È un sistema che stimola, fa squadra e ci permette di non perdere talenti per strada. Per ora...».

Cosa intende?

«Noi sentiamo meno il problema grazie ai grandi risultati e la visibilità e a quel 20% di iscritti in più che ci arriva ogni volta che svettiamo a livello mondiale. Ma fino a quando? In Italia manca un intervento diretto dello Stato che demanda tutto alle società sportive agonistiche ma trascurandole. Invece dovrebbero ricevere un sostegno diretto e meritocratico in base ai risultati. Perché in più, da noi, c'è questo modo di pensare, a volte interessato, che lo sport da sostenere sia quello praticato da tutti, non quello agonistico. Ma fra i tutti c'è chi può arrivare al vertice, chi non lo capisce è solo perché non vuole aiutare lo sport. L'agonismo è educativo. Problema: una volta il sistema delle società sportive funzionava, era dinamico, si manteneva con le quote di iscrizione, i piccoli sponsor. La crisi ha messo in ginocchio tutti. Solo che poi a livello agonistico ci confrontiamo con Paesi dove lo Stato s'impegna direttamente».

Ha la soluzione?

«Intanto serve domandarsi: l'Italia, fra i bisogni, ha quello di ascoltare l'Inno ai mondiali e alle olimpiadi? Se sì, bisogna intervenire. Negli Stati Uniti ogni anno destinano 40mila borse di studio agli atleti. Valore tra i 40mila e gli 80mila dollari. Ma le racconto della Francia che è qui, a due passi da noi. Oltralpe ci sono 174mila entità sportive e fra queste moltissime sono scolastiche e universitarie per cui ramificate sul territorio e con buone strutture. Noi ne abbiamo solo 70mila di buone. Per il resto sono società sulla carta, senza veri impianti. Gli altri Stati hanno piani decennali di sviluppo per lo sport e nello statuto dei comuni l'obbligo di garantire impianti ai cittadini; i nostri comuni non riescono a mantenerli e li affidano ai privati».

Un confronto imbarazzante.

«Anche perché poi parli con altri governi e ti dicono che per loro il sostegno allo sport è una strategia per creare cittadini più forti e utili al Paese... Qui non c'entrano nazionalismi o destra e sinistra. C'entra che l'identità di un Paese si manifesta attraverso l'inno e la bandiera e ascoltarlo e vederla fa crescere nei giovani l'orgoglio dell'appartenenza. Ispirandosi ai campioni, i ragazzi individuano modelli positivi e in loro s'alimenta la voglia di affrontare e vincere le sfide della vita. È la grande forza dello sport. Ha un ruolo educativo. E poi svettare a livello agonistico rappresenta un'eccellenza del Paese al pari del turismo e dell'industria. Lo dimostrano i battimano dei politici dopo le vittorie. Però adesso serve un deciso investimento dello Stato perché il Coni e le federazioni da soli non possono riuscirci».

Ne ha parlato con il ministro Lotti?

«Sa già, il problema nasce da lontano».

Per lo meno il nuoto sta meglio di altri. Federazione ricca, si dice.

«Guardi, il bilancio è di circa 46 milioni, una decina arrivano dal Coni, per il resto ci autofinanziamo con l'attività dei nostri centri federali frutto di investimenti e grandi sacrifici. Non siamo mai andati in rosso però facciamo i salti mortali: gli atleti non viaggiano in business, non alloggiano in hotel a cinque stelle, i tecnici non sono i più pagati. Però è vero: noi stiamo meglio grazie ai risultati, ma senza un intervento mirato del governo, un intervento che certo non può fare il Coni, anche per il nuoto si tratta di una crisi solo ritardata. E che arriverà, impoverendoci alla base.

Noi riusciamo ancora a sostenere i campioni già sbocciati, ma avanti così e addio nuove Pellegrini, addio nuovi Paltrinieri, addio inni e addio orgoglio».

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