"Ho dato la vita per dimostrare che la Franzoni non ha ucciso"

Maria  Grazia Torri, giornalista, scopre per caso un’altra verità sul delitto di Cogne. Indaga e pubblica un libro. Scrittori come Lucarelli, Scurati e Veronesi prima la incoraggiano, ma poi si defilano. E lei a 56 anni si ammala di cancro

"Ho dato la vita per dimostrare che la Franzoni non ha ucciso"

La guardi, crocifissa nel letto, consumata da un tumore all’esofago, l’ago della flebo infilato nel braccio, prostrata dai conati di vomito che cadenzano le risposte pronunciate come se ogni volta esalasse l’ultimo respiro, e vorresti smettere subito, chiudere qui la più crudele intervista della tua vita, scappare via, se lei non ti trattenesse ogni volta con lo sguardo, col gesto della mano, con la forza del pensiero. E ti vengono in mente le parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Maria Grazia Torri ha fatto di più: sta dando la vita per una persona che non è sua amica, che non conosce, che non ha mai incontrato, che non le ha mai rivolto la parola, che non le ha scritto neppure una cartolina. È una donna rinchiusa nel carcere bolognese della Dozza. Si chiama Annamaria Franzoni. Tre sentenze pronunciate in nome del popolo italiano l’hanno dichiarata colpevole del peggiore dei delitti: l’assassinio del figlioletto di appena 3 anni.
Maria Grazia Torri fa il mio stesso mestiere, la giornalista, e ha indagato a lungo e s’è convinta che la madre di Samuele non sia affatto un’assassina, che il bimbo sia morto per cause naturali ancorché rarissime: la rottura di un aneurisma cerebrale, cioè di una vena dilatata per una malformazione congenita, seguita da un’emorragia subaracnoidea traumatica e da una crisi epilettica che gli hanno letteralmente fatto esplodere la testa. Ha scritto un volume di 362 pagine, Cogne. Un enigma svelato (Giraldi, Bologna), per dimostrare l’innocenza dell’imputata. Nessuno ne ha parlato, nessuno l’ha recensito, nelle librerie non lo espongono, praticamente è rimasto un samizdat. All’inizio, non trovando un editore disposto a pubblicarlo, con la forza della disperazione era andata a offrirlo a Maddalena Toma, che ha una copisteria di testi universitari a Verona e che ora prega tutti i giorni per lei, perché guarisca.
Ho saputo dell’esistenza di Maria Grazia Torri per caso. Mea culpa. Eppure lei ce l’aveva messa tutta nel gridare al mondo la sua verità, due anni di lavoro e i risparmi prosciugati in questa che era diventata la battaglia della sua vita e che ora sta trasformandosi nella causa della sua morte. «Ho perso il conto dei direttori di giornale, dal Corriere della Sera in giù, alle cui porte ho bussato invano. Ho parlato con Carlo Lucarelli, il conduttore di Blu notte: ha letto la prima bozza del libro, l’ha definito molto interessante ma al dunque s’è tirato indietro. Ho parlato con lo scrittore Tiziano Scarpa, che credevo un amico; già una volta aveva scambiato la mia rasatura da chemioterapia per un taglio di capelli all’ultima moda; ha fatto lo stesso col caso Cogne: non sapendo nulla di aneurismi cerebrali infantili - lui è un romanziere e un poeta, si sa - ha dato il mio libro all’Einaudi ma, invece di appoggiarlo, l’ha stroncato con una scheda di lettura in cui demoliva le “mie” teorie mediche e paragonava i neurochirurghi da me interpellati a “giullari fantasiosi”. Mi sono rivolta al giallista Andrea Pinketts: altro bidone. Ho scritto indignata sul mio blog un’apologia di Émile Zola sul caso Dreyfus: mi ha risposto stizzito Antonio Scurati, il vincitore del premio Campiello che avrebbe voluto far morire Bruno Vespa per interposto killer, dicendomi di mandargli il libro al volo perché lui non era “né un disimpegnato né un pesce lesso”. L’ho fatto: inutilmente. Idem Sandro Veronesi, altro scrittore di grido: ha accampato la scusa che aveva qualcuno malato in famiglia. Allora mi sono rivolta a La 7, a Daria Bignardi, direttrice di Donna quando io curavo una rubrica per quel mensile, ma per lei “non era abbastanza chic” occuparsi di Cogne».
E adesso Maria Grazia Torri si trova «in un territorio neutro: quando comincia e quando può finire la mia vita, solo Dio lo sa». La bellissima ragazza che a vent’anni Federico Fellini avrebbe voluto per un ruolo nel film La città delle donne, se i genitori non le avessero impedito di andare sul set, è divenuta l’ombra di se stessa. Laureata in filosofia e specializzata in storia dell’arte contemporanea, divorziata («dolorosamente divorziata, ci tengo a dirlo»), prima di diventare giornalista ha insegnato all’università e alle superiori per 23 anni. Ha scritto per Flash art e per altre riviste specializzate. Nel 1998 ha contribuito a fondare la redazione arte e design di Kult, «mi hanno accantonata dopo dieci anni senza un grazie soltanto perché inutile causa cancro».
«Impotenza, questo è lo stato d’animo che ha minato le forze residue di Maria Grazia», piange senza ritegno l’ex compagno Luca, che dopo 11 anni di convivenza resta in contatto con lei anche oggi che s’è sposato con un’altra donna e sta per diventare padre. L’autrice dello scomodo libro s’è rifugiata in una villetta di Rimini, la città dov’è nata 56 anni fa: è la casa della madre Ottaviana, ultraottantenne, donna forte, laureata in matematica, suo unico sostegno. Non riesce né a mangiare né a bere, tira avanti a soluzioni glucosate endovena. Fino a qualche settimana fa riusciva a presentarsi all’ospedale per le terapie. Ora viene l’oncologo a domicilio.
«Nell’ultimo periodo del nostro rapporto Maria Grazia si è fatta rapire dal caso Cogne, perché di rapimento bell’e buono s’è trattato», confida l’ex compagno. «Ha abbandonato la sua attività di critica d’arte, s’è buttata anima e corpo in questa storia. L’ho vista fare le valigie in fretta e furia per recarsi in Campania a un simposio di neurochirurghi, dove purtroppo nessuno ebbe il coraggio di esporsi». Quel coraggio che a lei invece non è mai mancato. «Un giorno eravamo alla Bicocca di Milano per una mostra. All’uscita Maria Grazia notò una donna che piangeva. D’istinto andò a consolarla. Cercai di trattenerla, ma non ci fu nulla da fare. Più tardi mi disse che si trattava di un’inglese che aveva appena ricevuto la notizia della morte improvvisa di sua madre. S’era legata empaticamente a quella sconosciuta e aveva condiviso con lei un dolore immane. Questa era, anzi», si corregge, «questa è Maria Grazia Torri».
Quando e perché ha deciso di occuparsi della morte di Samuele Lorenzi?
«Per caso, nell’aprile del 2006. Fino ad allora sapevo poco o nulla del cosiddetto delitto di Cogne, di Samuele e di sua madre Annamaria, condannata in primo grado a trent’anni di carcere. Non guardo la televisione e i fatti di sangue mi ripugnano. Ma da quel giorno il caso è diventato per me un’ossessione».
Che accadde di preciso?
«Ero in una galleria d’arte per una recensione e andai a sbattere la testa contro una porta a vetri che credevo non ci fosse, tanto era pulita. Mi ritrovai ricoverata al Fatebenefratelli di Milano, dove fui visitata da un neurochirurgo, il dottor Giovanni Migliaccio. “Ah, dunque, lei è giornalista?”, mi disse dopo la Tac, mentre esaminava la mia tessera dell’Ordine, l’unico documento che avevo con me. “Voglio che lei veda la mia critica a Cogne”. Dottore, replicai io, non me ne frega niente. “Samuele non è stato ucciso”, sbottò lui. Come no? Sono quattro anni che ce lo ripetono, risposi, e intanto pensai fra me: ho imbroccato un altro innocentista fanatico! “Non c’è stato nessun delitto a Cogne”, insistette. Dopo avermi dimessa, mi mandò per email una relazione che smentiva le tesi del perito del tribunale di Aosta, il medico legale professor Francesco Viglino. Lo stupore per quello che leggevo era indescrivibile. I 17 colpi sulla testa dello sventurato Samuele non erano 17 colpi e comunque non venivano da una sola arma».
E che cos’erano?
«L’esito di un aneurisma fulminante. Un evento di questo genere provoca una forte pressione endocranica che crea a sua volta devastanti scosse epilettiche e conseguente edema cerebrale, il che spiega perché il cervello del bimbo è stato spinto fuori dalle brecce ossee. L’ultima fase di questa morte improvvisa e virulenta è il vomito cerebrale o vomito a getto, per cui il sangue colato in bocca per il trauma viene schizzato lontanissimo, sino a sei metri, com’è successo con Samuele, verso il soffitto e le pareti. La madre avrebbe dovuto avere in mano una pompetta caricata col sangue del figlio per fare quello scempio sui muri della camera. Non solo: l’imbrattamento della Franzoni avrebbe dovuto comportare del tempo ulteriore per lavarsi, cambiarsi e asciugarsi i capelli, che nessuno ha notato bagnati. Ma non sono state trovate tracce di sangue nella doccia».
Ha sposato la tesi del dottor Migliaccio.
«No, sono andata in cerca di altri consulenti. Il dottor Alberto Pasqualin, responsabile della struttura di neurochirurgia vascolare dell’ospedale di Borgo Trento a Verona, mi ha consegnato alcuni testi che avvalorano questa possibilità».
Siamo sempre nell’ambito delle ipotesi.
«Certo. Però mi sono rifatta a Sherlock Holmes: “Niente è più ingannevole di un fatto ovvio”. Che Samuele sia stato ucciso dall’aneurisma è il fatto più ovvio. Lo intuì subito la vicina di casa dei Lorenzi, il medico Ada Satragni, che per prima soccorse il bimbo. Nessuno le diede retta. La stessa Annamaria, col suo istinto di madre, aveva afferrato la verità: “A mio figlio è scoppiata la testa”».
La parola di Migliaccio e Pasqualin contro quella di Viglino.
«È il motivo per cui mi sono fatta aiutare, nella stesura del libro, dalla dottoressa Agnesina Pozzi, medico consulente del tribunale di Lagonegro. Rilevando un colpo all’occipite di Samuele, inspiegabile se si considera che il bimbo aveva la testa appoggiata sul cuscino e l’aggressione è sempre stata descritta come frontale, la Pozzi ha osservato che il piccolo può aver sbattuto la testa agitandosi nel letto e poi a quest’urto casuale sarebbe seguita la crisi epilettica. Nessuno ha minimamente preso in considerazione la possibilità non remota che possa essersi trattato di una causa nient’affatto dolosa. “Converrebbe studiare come si fanno bene le cose in Csi, il serial Crime scene investigation: nel caso di Cogne la realtà è stata davvero superata dalla fantasia”, ha concluso la Pozzi».
Insomma, a Samuele scoppiò la testa.
«Dire che gli esplose il cranio è un’improprietà di linguaggio. Tuttavia un bimbo così piccolo ha ancora le fontanelle aperte, cioè la volta cranica non è ancora ossificata, per cui può verificarsi qualcosa che assomiglia a un’esplosione. Nell’80-90% dei casi l’emorragia subaracnoidea è causata da una malformazione vascolare, tipo aneurisma o angioma. Ma nel 10% dei casi non si riscontrano cause apparenti».
Perché autorità giudiziarie e mezzi d’informazione avrebbero orchestrato questa congiura del silenzio?
«Perché la mia tesi non è facile da capire e da digerire. Bisognava escludere l’ipotesi di aneurisma esplorando i vasi del poligono del Willis, cosa che non si è fatta. Sarebbe stato il caso di aprire un’inchiesta squisitamente medica sulle cause della morte di Samuele. Ma i giornalisti non si occupano di queste cose, vero? Mi risulta che non sia stata neppure eseguita una Tac a cadavere integro che rilevasse lo stato cerebrale di Samuele. Si è pensato soltanto a sottoporre la madre a una caterva di perizie psichiatriche».
Il fatto che le lunghissime indagini in ogni direzione non abbiano portato a nulla non offre una ragionevole probabilità che la colpevole sia proprio la madre?
«Sono partiti tutti da una falsa pista. Non si sono mai chiesti di che cosa è morto Samuele, ma da chi è stato ammazzato. Un errore di partenza dovuto alla fretta e alla fame di mostri che governa la pancia dei mass media. Una studiosa americana, Ellen Nerenberg, sostiene che la piazza mediatica ha calcato la mano in modo ignobile. Fior di esperti svizzeri attestano che le perizie fatte a Cogne sono da processo alle streghe di Salem».
Conosce Annamaria Franzoni? L’ha mai incontrata?
«No. Mi sono limitata a svolgere le mie indagini scientificamente».
Che cosa si sentirebbe di dirle in questo momento?
«Usa il cervello e leggi il mio libro. Sei sana, sei innocente e sei in carcere, mentre io, che ho peregrinato a bussare per te a tutte le porte, mi sono ammalata di una patologia impronunciabile e spietata e ho un futuro impossibile, a meno che la grazia di Dio non mi restituisca ciò che ti ho dato, a meno che la sua bontà non m’illumini, non metta luce nelle mie ferite come io l’ho messa nelle tue. Ho portato la tua croce per un sacco di tempo: ora tu aiuta me con la preghiera, rendimi almeno il senso dell’immane sacrificio al quale sono andata volontariamente incontro».
Nel libro cita il significato che la teologia cristiana dà alla parola «mistero», che non è «inconoscibilità» ma «rivelazione». Può spiegarsi meglio?
«Io dico che il caso Cogne rimane un mistero e non solo perché la Franzoni è stata condannata senza prove, senza confessione, senza il ritrovamento dell’arma del delitto, senza colpa evidente, senza movente, ma perché si continua a non saperne niente di niente. Perciò la storia, come il mistero cristiano, contiene in sé i germi di una rivelazione che deve ancora esserci e che di sicuro ci sarà, un giorno».
Quali sono le sue attuali condizioni di salute?
«Sto malissimo. Ero stata operata all’ospedale Sacco di Milano dieci anni fa per un tumore, con resezione subtotale dello stomaco e della testa del pancreas. Ma ora la malattia si è ripresentata e non possono più rioperarmi. In compenso sono appena tornata sotto i ferri per una pleurite da denutrizione. Non posso stressarmi dopo una storia del genere: ci vuole calma e paradiso. Vivere per me è diventato uno sport estremo».
Ritiene che la recidiva del male sia collegata alla sua battaglia per far trionfare la verità?
«Sì, ritengo di sì. Non ho avuto mai niente di positivo dall’essermi occupata di questa storia, a parte l’assenso della mia coscienza».
Ha messo a repentaglio la sua vita per restituire Annamaria Franzoni alla famiglia?
«Veramente speravo che le cose si mettessero meglio per tutt’e due. Non è che volevo fare la martire, io sono sempre stata un’ottimista.

Ma la giustizia per me è un valore supremo e senza verità non c’è giustizia. E quando uno lavora per la verità, Dio lavora per lui. Ora basta, per favore, non ce la faccio più».
(416. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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