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Ho detto a mio figlio: sei stato adottato

La storia d’amore dei due gemelli inglesi separati dalla nascita pone una domanda: è giusto nascondere ai figli adottivi la loro origine? Il tema apre un dibattito etico e giuridico.

La storia d’amore dei due gemelli inglesi separati dalla nascita pone una domanda: è giusto nascondere ai figli adottivi la loro origine? Il tema apre un dibattito etico e giuridico. Leggi l'articolo di Tony Damascelli

Aveva cinque mesi, il nasino un po’ schiacciato, gli occhi scuri e molto grandi. L’assistente sociale me lo mise in braccio: «Ecco il suo bambino». Ce ne tornammo a casa, mio marito ed io, con il nostro fantolino nel baby pullman. Era l’inizio dell’estate. E adesso? Adesso cominciava la faccenda di essere genitori, con tutte le sue difficoltà, gli inciampi, gli sbagli, le angosce. E le tante felicità, ovviamente. Superato il panico iniziale, presa confidenza con pannolini e biberon, ci ponemmo subito il problema di come impostare il nostro rapporto di genitori con il figlio adottivo. Lui, adottato da piccolissimo, non poteva avere ricordi e, per un caso strano della sorte, mi assomigliava straordinariamente. Da più grandicello, lo mettevo nel carrello del supermercato e le cassiere dicevano: «Ma che bel bambino signora, ha preso tutto da lei. Il papà non si dispiace?».

Qualche amico un po’ rincoglionito dall’età, qualche anno dopo mi diceva: «Ah, sì, mi ricordo quando eri incinta...». Forse per un attimo ci domandammo «Ma perché glielo dobbiamo dire?». Tacere la verità appariva la strada più semplice e piana, la meno faticosa. Perché un conto è decidere «gli diremo la verità», un conto è trovare il modo di dirla, questa verità. Con quali parole e, soprattutto, in quale momento? A che età? Ci aiutò un gentilissimo signore dell'associazione delle famiglie adottive e affidatarie, cui ci rivolgemmo per un consiglio: «Glielo dovete dire subito». «Subito? ». «Subito, signora. Quando lo mette a dormire, per esempio. Cominci subito a raccontargliela, la favola della sua vita. Adesso sentirà solo il suono delle sue parole, poi ne capirà il significato». E così facemmo.

Gli raccontavo alla sera che lui era un bambino fortunato perché aveva due mamme, una in paradiso che lo proteggeva e una in terra che lo allevava. Che era poi la pura e semplice verità. Non che tutto questo sia sempre stato facilmente digeribile per il bambino. Nel suo piccolo qualche difficoltà ad accettare tutto questo c'è stata. Ma quando ha avuto dei dubbi, li ha espressi. Un giorno, a quattro anni, si piazzò davanti alla nonna e le chiese a bruciapelo: «Dimmi in quale pancia sono stato». E la nonna glielo disse. Un’altra volta ci chiese dov'erano i suoi fratelli. Gli rispondemmo che non c'erano fratelli, altrimenti sarebbero stati insieme a lui, con noi. Man mano che nostro figlio cresceva, cresceva anche il sollievo di essere stati sinceri. E la consapevolezza che questa scelta - non facilissima - metteva noi e soprattutto lui al riparo da incidenti psicologicamente anche gravi. Talvolta stupidi.

Se un'ottima maestra, per far capire agli scolaretti delle elementari il concetto di «storia», non trova di meglio che fargli raccontare la loro storia e dice ai bambini: «Incollate sul quaderno la foto della mamma col pancione», voi che gli raccontate al bambino? E se andando col ragazzino quindicenne al comune di Milano per fargli la carta d'identità, vi imbattete in un impiegato stupido e arrogante che alzando la voce davanti a vostro figlio pretende «l'autorizzazione della madre naturale altrimenti non si fa niente» perché il decreto di adozione del tribunale non è ancora stato registrato (dopo quattordici anni!), voi che rispondete al suo sguardo smarrito? Ma la cosa più importante è un'altra: non si può impostare un rapporto fondamentale, prezioso e delicatissimo come quello di due genitori con il proprio figlio su una colossale menzogna. Perché il figlio cresce e diventa adolescente e comincia a contestarvi, a rispondervi male, a chiudersi in camera con la musica a palla. Come tutti gli adolescenti.

Ma sono cose che si vivono. Tremendo sarebbe stato dover trovare una risposta alla sua accusa: «Ma perché c... mi avete raccontato tutte queste balle?». Il figlio può mandarvi a quel paese - è suo diritto - voi potete sbraitare perché non studia o torna troppo tardi la sera, è vostro diritto. Ma anche nel corso del litigio più arrabbiato lui non vi dirà mai «Ma che volete da me, non siete neanche i miei genitori». Perché che non siete i suoi genitori «biologici» lui lo ha sempre saputo, lo ha talmente saputo che non gliene importa niente, è una cosa ovvia. E sa una cosa soprattutto. Che di voi si può fidare. Si potrà fidare.

Sempre.

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