«Ho raccontato il Sud, il lavoro e la tristezza di dover emigrare»

Anni Settanta, fabbriche svizzere, ritorno in Italia, operai tessili... Per il suo «Ternitti» si può parlare di neooperaismo?
«Non sarebbe sbagliato. Anche se la vera descrizione della fabbrica si concentra nei primi capitoli. Poi inizia il racconto delle conseguenze. Il filone esiste, come un tempo è esistito quello della letteratura del precariato, in cui anche io sono stato inserito a suo tempo».
È comunque un romanzo sul lavoro.
«Le condizioni di lavoro non sicuro sono un modo per parlare della nostra civiltà occidentale. Anche qui si muore di lavoro, non solo nei paesi più arretrati. E poi c’è il tema da sempre “allegato” alla letteratura industriale: l’emigrazione. In Ternitti ci sono le migliaia di persone che hanno lasciato il mezzogiorno, ma c’è anche il loro ritorno. Io stesso sono nipote di quella generazione: i trentenni oggi sono i nuovi emigranti, più qualificati, laureati, che lasciano il Sud per andare a stare peggio all’estero».
Sud, o Puglia, vuol dire anche locale contro globale, come nel romanzo di Edoardo Nesi?
«Martina e Prato erano i due poli tessili, non dimentichiamolo, uno del Nord e uno del Sud. Mimì, la protagonista di Ternitti, potrebbe essere, per assurdo, una delle operaie del romanzo di Nesi. L’amore per la propria terra è comune ai due libri. Quello di Edoardo più amaro, il mio più nostalgico. Ma entrambi difendiamo al nostra gente, lui con le intelligenze pragmatiche, io con il dialetto e con il racconto di una terra per cui io ho un amore spassionato. L’idea del romanzo ha preso vita proprio dal contrasto tra le pietre della mia terra, davvero eterne, quei muretti a secco che sono fossili, fatti con le ossa dei nostri antenati, contro l’amianto, che si voleva chiamare eterno e che invece è stato soltanto funesto».
Due difese del territorio e del lavoro per quelli che sembrano due romanzi-manifesto. Ti sentiresti di dire che il tuo ha un tono “vendoliano”?
«Quando i cognomi diventano aggettivi e vengono accostati ai libri il risultato, che di solito è una generalizzazione, non mi entusiasma. E però sicuramente delle cose in comune ci sono. L’immaginario poetico è quello, io e Nichi Vendola veniamo entrambi da lì. Lui si ispirava, in passato quando faceva il poeta, ora non so se pratichi ancora, ad autori che sono gli stessi miei, come Scotellaro».
Pennacchi ha già ipotizzato che in un testa a testa finale allo Strega tra lei e Nesi, vincerebbe Nesi. Che ne pensa?
«Sono molto provinciale e non sono mai stato candidato nemmeno alle elezioni dei rappresentanti di classe. Per me già essere nella dozzina significa molto: a Martina Franca mi fermano e mi fanno i complimenti, non sono più il “venditore di fumo” di prima.

I libri di Pennacchi e Nesi sono molto diversi: saga novecentesca verso presa diretta, scrittura ibrida, la cosiddetta fiction-nonfiction, che è la stessa su cui lavoro io con gli autori Fandango. Ma nel loro arco costituzionale coprono quella che per loro è l’umanità. Il passaggio di testimone ci può stare».

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