da Milano
In quel trilocale al civico 7 di via Morazzone, a due passi da Paolo Sarpi, adesso ci sono le «sciesine». Prostitute con gli occhi a mandorla, che offrono «massaggi» per venti euro, trenta con «extra» incorporato. No, non fanno inserzioni: si arriva col passaparola come proprio accadeva due anni fa, sempre lì, in quel trilocale dove la polizia scoprì un cinese che, pur privo di laurea in medicina, riceveva pazienti e somministrava farmaci illecitamente importati da Pechino. E oggi come allora bisogna far la fila. Quella che nel day after è sparita fuori da un locale di via Bruno: è lì che si arruolano i cinesi a pochi euro al giorno. È la Chinatown del caporalato, quella delle «agenzie di servizio» made in China che offrono ingressi turistici o di lavoro per 7mila euro e impiegano donne e uomini nelle numerose attività tessili del quartiere trasformato in suk. «Ogni notte, pure di sabato e domenica, sino alle quattro del mattino sento il ticchettio delle macchine da cucire, non piglio sonno... marrabbio e non ne posso più ma non sono razzista, anzi sono di sinistra e la migliore amica della mia bambina è una orientale», racconta Nadia ai microfoni di Radio Popolare, che on line tenta di soffiare sul fuoco vagheggiando xenofobia dietro gli scontri in Chinatown.
Occasione persa, come lintegrazione mancata anche attraverso Euro China News, giornale in lingua mandarina, che spara titoloni color rosso sangue e fotografie dei cinesi in rivolta - e gli italiani che in conferenza stampa mettono allindice lassociazione Alkeos guidata dalla psicologa Emanuela Troisi e finanziata con 580mila euro dallamministrazione comunale di Gabriele Albertini perché «accentua la contrapposizione cinesi-italiani». Problemino non da poco in unarea franca, dove cè chi al negozio Chicco offre «in cambio di una vetrina, trenta metri quadrati, 350mila euro per uscire». Offerta da prendere al volo.
Invasione di ogni spazio quasi parossistica da tipica operosità orientale ma senza mai emettere lo scontrino fiscale, che consultando banche dati e archivi si concretizza in una ventina di pagine col timbro del catasto: poco meno di cinquanta nomi e cognomi di cinesi di mezzetà che possiedono almeno tre immobili. La media dacquisto? Otto unità immobiliari che, tradotte in soldoni, fanno euro più euro meno qualcosa come due-tre milioni di investimento.
La mappatura dei beni - il cinese più ricco è un commerciante che possiede una decina di appartamenti, mezza dozzina di box e tre magazzini - dice poi che la comunità cinese non privilegia più solo Paolo Sarpi, ma si espande fuori dal cuore di Chinatown. Una ragnatela di acquisti che si segnala allassalto dellasse di via Padova fino al confine est di Milano. Asse commerciale, via Padova, di quasi quattro chilometri dove i bazar cinesi stanno piano piano sloggiando quelli musulmani. E lo stesso accade lungo via Pellegrino Rossi, in zona Affori, e in via Valtrompia a Quarto Oggiaro. Case e negozi di periferia che cambiano di proprietà con rialzi rispetto al valore anche nellordine del trenta per cento.
E, sorpresa, tra gli acquirenti ci sono i nuovi cinesi, quelli di seconda generazione: quelli che sanno bene litaliano, che conoscono i loro diritti e che non evitano il confronto con le istituzioni. Figli dei commercianti immigrati di Paolo Sarpi, sui documenti alla voce professione si definiscono «consulenti». Ma hanno fratelli e sorelle minori che alla colonizzazione gialla sono indifferenti, che della razzia di ogni centimetro quadrato non ne fanno vanto ma, attenzione, sono ancor più pericolosi: loro, appartengono alle gang di Wenzhen e Wenzhou, dedite, come in patria, alle estorsioni e ai sequestri lampo.
Storie celate nella Chinatow di Paolo Sarpi, come nelle altre spalmate su Milano. Cento richieste di custodia cautelare per altrettanti bulli di queste due gang sono rimaste lettera morta. Ma la tensione, intanto cresce.
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