Di certo non è l’unico. Se Francesco Renga dice di rimpiangere l’Italia delle canzoni famose nel mondo, anche altri gli danno ragione. Insomma, fioriscono i dischi di cover, ricamati e spiegati nei modi più diversi ma pur sempre cover. D’accordo, la spiegazione più immediata è che la discografia è in rosso e ci sono pochi soldini per fare investimenti nuovi o realizzare produzioni esagerate. E poi, naturalmente, il pubblico che ancora compra cd è anagraficamente sempre più alto. Ma c’è anche quel sempre meno timido tentativo di riscoprire le radici della musica italiana quando era davvero popolare e non populista. Quando c’erano autori e parolieri. Quando la ricerca linguistica era sopraffina perché il linguaggio doveva essere profondo ma comprensibile, semplice ma evocativo. Insomma, il pop italiano prende fiato nel suo momento peggiore.
E allora Gianni Morandi canta le sue Canzoni da non perdere mescolando l’alto e il (presunto) basso per far capire che in fondo tanta differenza non c’è. In poche parole, ha reinterpretato Rimmel di De Gregori o L’isola che non c’è di Bennato, e va bene: tutte gemme giustamente osannate nei decenni. Ma anche Luna di Gianni Togni oppure Tu sei l’unica donna per me di Alan Sorrenti, canzoni sulle quali tanti critica ha sghignazzato sopra bollandole come paccottiglia da smerciare un tanto al chilo. Erano impegnate nel «sociale»? Benissimo. Parlavano semplicemente d’amore? Porcheria.
E invece sono ancora qui, ben fisse nella memoria di tutti, a dimostrazione che la musica si divide solo in due categorie: quella che piace e quella che no. Idem per Ornella Vanoni, un simbolo della nostra musica quando era davvero un prodotto da esportazione. Lei fa l’operazione uguale e contraria: canta sempre cover ma meno datate come Quanto tempo e ancora di Biagio Antonacci oppure Anima di Pino Daniele o addirittura Ogni volta di Vasco Rossi. Insomma, un giro d’orizzonte sui decenni, l’alfa e l’omega del nostro pop.
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