nostro inviato a Parma
Eccoci tutti quanti all'ultimo stadio del calcio: «Ennio Tardini», là dove il campo di gioco diventa luogo della memoria. Così ci siamo ridotti: come in uno di quei mesti pellegrinaggi verso le mete del lutto collettivo, fossero Dachau o Marcinelle, fossero vittime di guerra o di tragedie sul lavoro, con l'intollerabile differenza che qui si commemora solo per sport.
Parma, Tardini: due curve, due vuoti, due rimpianti. Ciascuno ha il suo morto da piangere, ma per uno strano incastro di combinazioni, parmensi e laziali si ritrovano per piangere insieme. All'andata, a Roma, il Parma faceva visita proprio la domenica in cui si tornava in tribuna senza Gabriele Sandri, ucciso la domenica prima nell'autogrill di Arezzo. Tra chi sportivamente rendeva omaggio, quella volta c'era Matteo Bagnaresi, mai più immaginando di non esserci nella partita di ritorno, causa altro dramma da autogrill.
Sono gli incomprensibili disegni del destino, ma sarebbe stupido liquidare l'intera faccenda in questo modo. Sarebbe più serio dire invece che cose simili succedono inevitabilmente, inesorabilmente, continuando a coltivare questa mitologia del tifo militante e militare, costruita su liturgie folli e deliranti, sempre in bilico lungo il confine del rischio, fino a nuova tragedia. Che poi il destino finisca per legare Parma e Lazio con un sottile filo nero di coincidenze, alle cui estremità gemono due famiglie distrutte, è solo un dettaglio trascurabile. Qualcosa di infinitamente trascurabile, rispetto all'enormità dei due giovani immolati sull'altare profano di una stupida religione.
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