I capi possono cambiare ma il potere resta sempre

Da Diocleziano ad oggi la novità al vertice è uno dei momenti più delicati per uno Stato

I capi possono cambiare ma il potere resta sempre

«Il potere logora chi non ce l'ha», così si diceva motteggiasse uno dei politici più longevi e potenti a cavallo del XIX secolo: Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord. La frase, citata anche da Giulio Andreotti, vero ed eterno divo della Prima repubblica, è senz'altro vera. Ma alla fine il potere deve pur passare di mano. Fluire da una generazione a un'altra, magari mantenendosi inalterato nella natura ma cambiando le teste su cui ricade. Si tratta sempre di un passaggio delicatissimo. Si vede persino in una democrazia rodata come quella italiana, basta vedere la fibrillazione prodotta dalla futura elezione del nuovo Capo dello Stato. In contesti meno normati le dinamiche del cambio al vertice hanno innescato tensioni al calor bianco, sono utili proprio per andare ad indagare le radici profonde di cosa sia il potere.

Se ne è accorto Alfonso Celotto, professore di Diritto costituzionale e di Diritto pubblico all'università di Roma 3, che ha analizzato il tema in L'enigma della successione. Ascesa e declino del Capo da Diocleziano a Enrico De Nicola (Feltrinelli, pagg. 268, euro 20). Come spiega Celotto, sullo sfondo della ricerca della miglior organizzazione del potere «resta il problema della scelta del Capo... Sceglierlo è difficile, ma forse, a pensarci bene, è ancora più difficile decidere chi ne sarà il successore... Ogni successione è diversa, eppure tutte hanno una cosa in comune: sono al tempo stesso l'ultimo atto di una manifestazione del potere e il momento originario di quella nuova». Anche perché molti leader, consciamente o inconsciamente, gradirebbero, per usare le parole della marchesa di Pompadour, che «Après nous, le déluge». Questo non succede mai, però è un atteggiamento mentale che può creare grossi danni. La Repubblica romana, punto di partenza del lavoro di Celotto, mise a punto nei secoli sistemi per garantire un ordinato passaggio dei poteri. Dopo lo scontro tra Silla e Mario iniziarono ad andare in crisi per saltare definitivamente con il primo e il secondo triunvirato. Alla fine a creare un sistema di potere nuovo e duraturo ci pensò Ottaviano Augusto (63 a.C. - 14 d.C.). Ma il problema della successione restò apertissimo: Roma era refrattaria ad un potere a trasmissione ereditaria, lo era da quando Lucio Giunio Bruto (545 a.C. - 509 a.C.) aveva messo fine alla monarchia ereditaria. Augusto puntò ad un sistema di adozione e cooptazione che avrebbe fatto scuola nei secoli. Un sistema che Diocleziano tentò di migliorare dividendo l'impero sotto la potestà di due augusti e due cesari (correva l'anno 293 d.C.). Una tetrarchia come sistema successorio perfetto. Non funzionò, l'Impero era troppo grande e la forza centrifuga esercitata dai comandanti delle legioni troppo pertinace.

Il Medioevo ha tentato di fornire una successione stabile garantita su un'altra base, forse la base più antica di tutte: il sangue, come si diceva allora. Oggi diremmo il Dna. Se per i romani la successione ereditaria era innaturale, per le monarchie divenne il sistema prediletto. Dovrebbe, quanto meno, rendere il passaggio dei poteri più certo e indirizzato a persone a cui viene insegnato come governare per tutta la vita. Celotto dimostra, a partire dalla complessa strada che portò Elisabetta Prima sul trono, che anche questo metodo di scelta risultava essere tutt'altro che automatico e blindato. Né è valso a blindarlo l'aver emendato ed ampliato la Legge salica, come è successo in quasi tutti gli Stati che hanno mantenuto la monarchia.

Più efficace il sistema inventato dalla Chiesa cattolica, l'altra grande istituzione arrivata sino ai giorni nostri dal Medioevo. L'elezione del Papa, nel conclave, da parte dei cardinali ha assunto la forma di un complesso meccanismo che (a prescindere dallo Spirito Santo) funziona bene per scegliere un leader assoluto che, però, non ha potere sulla sua successione. Ci sono voluti secoli per rendere così precisa questa macchina politica, eppure si può innescare, comunque, un fattore di confusione. Bonifacio VIII dopo essersi liberato del suo titubante predecessore, Celestino V, facendolo abdicare si affrettò ad approvare la costituzione Quoniam aliqui del 1298. Recita: «Romanorum Pontificem posse libere resignare». Il caso resta straordinario, ma si è ripetuto con Papa Ratzinger che per sua fortuna non è finito in una cella come Celestino V, ma i dubbi di molti cattolici non sono mancati.

E per una istituzione dove il potere soffre l'abdicazione ce ne sono altre in cui il rischio è che la democrazia, o l'alternanza, siano minate dalla successione dei mandati. È il caso di Roosevelt che «il 7 novembre 1944 divenne presidente degli Usa per la quarta volta consecutiva, con un plebiscito che gli fece ottenere quasi l'80% dei grandi elettori». Solo nel 1951, anni dopo la sua morte, gli Usa riuscirono a introdurre il limite del doppio mandato. La Corea ancora oggi vanta un Presidente Eterno, gli Usa hanno rischiato... Del resto tra le pagine più interessanti di Celotto ci sono proprio quelle dedicate al primo presidente della Repubblica italiana: Enrico De Nicola. Il capo provvisorio dello Stato fu una sorta di presidente re perché come recitava il decreto legislativo del 1946: «Fino a quando non sia entrata in funzione la nuova costituzione le attribuzioni del Capo dello Stato sono regolate dalle norme sinora vigenti in quanto applicabili». Cortocircuiti da successione che mettono in luce come il potere che, nei fatti, è sempre riconoscibile e sempre presente, a volte fatichi a giustificarsi.

E quando questa giustificazione stenta, facilmente entra nel territorio esplorato da Matteo Cavezzali in A morte il tiranno (HarperCollins, pagg. 202, euro 18). E il tiranno ovviamente è tale solo se la congiura di chi vuole sbarazzarsene riesce. Emblematico il caso di Cesare, che Cavezzali analizza nel dettaglio. Marco Giunio Bruto (85 a.C. - 42 a.C.) voleva essere un eroe proprio come il suo antenato che abbiamo citato prima. La storia raccontata dal vincitore, Ottaviano, lo ha trasformato in un traditore. In realtà era semmai un restauratore della tradizione. Il pregio del libro di Cavezzali è proprio quello di esaminare il crinale sottile della congiura.

Si va dalla fallita congiura delle Polveri sino a Gaetano Bresci passando per Robespierre e l'attentato all'imperatrice Sissi. Perché il potere non tollera vuoti e li colma sempre, con voti, con pugnali, o con unzioni sacre, poco importa.

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